di Rachele Velletri/ “Tu sogni l’America, io l’Italia”: così canta il cantante e produttore Ghali sul palco dell’Ariston in occasione del festival di Sanremo, la storica kermesse. La frase è tratta da “Bayna”, una canzone per metà in arabo e per metà in italiano, che emblematicamente racchiude il senso di isolamento provato da chi approda in un nuovo Paese. Bayna racconta una storia di ricerca di identità, come quella di Gamal.
Nella geografia dei luoghi di Gamal Elfayoumy, l’Italia è insieme punto di arrivo e punto di partenza. La sua esperienza e le sue sofferenze sono paradigma di molte altre storie come la sua, storie in cui il mare riveste l’ambiguo ruolo del traghettatore Caronte. E anche nel racconto di Gamal, il Mediterraneo è il terrificante ponte che lo ha portato qui, ancora una volta teatro di una storia di diaspora.
Gamal viene dall’Egitto, va fiero della bellezza del suo Paese, lo è meno delle politiche coercitive del suo presidente, al-Sisi. Per i turisti europei, il paese delle Piramidi è esotico e affascinante, ma il sentimento è opposto quando a parlare è un ragazzo che in Egitto ha vissuto. “Il mio paese è un paese morto”, dichiara alzando le spalle, con una lucidità sorprendente per un neomaggiorenne. In Egitto, racconta, manca il lavoro e il servizio militare non risparmia i giovanissimi, cosa che non stupisce in un paese altamente militarizzato quale è l’Egitto. L’obbligo di leva, spiega Gamal, salvo rare e ben codificate deroghe, è sottoposto a rigide regole legate all’abbandono scolastico: chi abbandona prima della fine delle scuole medie ha l’obbligo di prestare servizio per tre anni; per chi abbandona al termine del liceo, il servizio ha la durata di due anni; per chi è in possesso del diploma di laurea, l’obbligo si limita a un anno.
Gamal dimostra fin da bambino di avere le idee chiare: lui sogna di venire in Italia. Racconta di avere lasciato la scuola a quattordici anni, e non perché non fosse bravo, ci tiene a sottolineare, ma per partire. Braccato, dunque, dalla leva militare obbligatoria in un paese indebitato ormai da anni decide di partire per il suo futuro e, specifica lui, per aiutare da lontano sua mamma e suo papà, che sostengono la sua scelta. Sette sono le volte in cui Gamal tenta di varcare il confine tra l’Egitto e la Libia a piedi, senza riuscirci. A ogni tentativo segue la cattura della polizia in una delle infernali prigioni egiziane, dove è costretto a pagare per mangiare e per uscirne: e senza soldi, racconta, nelle galere egiziane si muore. Al settimo tentativo fallito, Gamal decide dunque di prenotare un biglietto aereo di sola andata, direzione Libia. Nelle promesse dei primi gestori della sua traversata, la Libia è un paese di passaggio: l’arrivo, una breve permanenza in uno dei campi libici, infine imbarco al primo posto disponibile. Nulla di più lontano dalla realtà.
Come testimonia Gamal – e com’è già noto dagli appelli delle più importanti ONG italiane ed europee – in Libia le violenze sui migranti sono brutali e i diritti umani costantemente calpestati; pertanto, in mancanza di alternative legali, si è costretti a dipendere totalmente dai trafficanti. Il campo libico si trasforma in una prigione a cielo aperto, in un susseguirsi di violenze, promesse e bugie. In Libia, Gamal vive per due anni assieme ad altre 150 persone in una stanza angusta e priva di servizi igienici. I soldati libici, fucile in mano, distribuiscono un panino al giorno che fa da colazione, pranzo e cena. Racconta di avere patito la fame, la sete, e di aver sviluppato i suoi primi problemi di insonnia, una delle numerose ferite impresse dal percorso migratorio.
Ha sedici anni quando la promessa della partenza diventa realtà. Racconta di una piccola barca sovraffollata con 650 persone, di cui solo 20 in piedi, rievoca l’esaurimento dell’acqua potabile e, in preda alla sete, la scelta di bere l’acqua del mare con l’aggiunta dello zucchero per renderla più dolce. Ma ciò che Gamal ricorda con maggiore paura, sono gli ultimi tre giorni della traversata: le onde alte tre metri, la barca inarcata, il suo sguardo dall’oblò. “Non posso parlare” dice, mentre mima di essersi accasciato in posizione fetale in un angolo della barca.
L’arrivo in Italia non mette tuttavia la parola fine alle difficoltà. Gamal approda in Italia come minorenne non accompagnato e vive per due mesi in una comunità di Siracusa: lì i materassi sono scomodi, come pieni di aghi, l’edificio si trova a due ore di cammino dalla città, attorno solo alberi d’arancia, e lo staff non è in grado di fornire nemmeno le cure mediche necessarie agli ospiti. In questo quadro di generale saturazione del sistema di accoglienza, i giovani migranti sono costretti a rendersi irreperibili e a scappare per raggiungere le città con migliori prospettive.
Così fa Gamal, che arriva, quindi, a Bologna. Oggi è un neo maggiorenne, tra i più giovani ospiti dell’Opera padre Marella di San Lazzaro di Savena, dove vive. Lavora come elettricista, è soddisfatto del suo lavoro e ha appena depositato le impronte digitali per i documenti.
Odia il mare: quando la comunità organizza delle gite fuori porta in spiaggia non partecipa. “Non voglio vedere il mare”, dichiara, “io voglio la terra”. Lamenta anche dei sintomi riconducibili al trauma della lunga sosta in Libia: di mattina, al suono della sveglia, si alza sempre di scatto, impaurito che un soldato libico gli percuota il petto col fucile per farlo alzare. Lo stato di allerta a cui lo hanno costretto la sua esperienza nelle prigioni egiziane, le violenze in Libia e il rischio per la propria vita nel Mediterraneo, gli hanno causato delle ferite profonde, ma invisibili. È il trauma silenzioso di cui il sistema di accoglienza italiano, oberato, fatica a prendersi carico.
In seno alle grosse crepe del sistema di accoglienza italiano opera l’importante lavoro dell’Opera padre Marella, che ascolta, aiuta e accompagna. Gamal è giovanissimo, e come tutti i giovani cerca la sua strada: ma la sua, è una strada con ostacoli più difficili da sormontare. In questo percorso di costruzione di identità, accompagnato da figure per lui di riferimento e forte di una determinazione senza pari, sta costruendo il suo futuro. Un percorso traumatico di attesa, di violenza e paura alle spalle di Gamal, che ha inevitabilmente inflitto ferite intense. Di fronte, la profonda felicità di essere arrivato in Italia. Infine, ancora una speranza: quella di poter rivedere i suoi genitori e suo fratello.