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Ho conosciuto Luca durante il servizio civile che ho svolto all’Aias e poi l’ho frequentato durante i primi anni di lavoro al Centro Documentazione Handicap di Bologna. Di lui conosco solo quel pezzetto di vita che va dalla fine degli anni ‘80 agli inizi degli anni ‘90, ed è da questa finestra di tempo che vorrei parlare di Luca.

Come obiettore di coscienza tra i miei compiti c’era anche quello di autista e in un giorno di primavera (era il 1987?) dovevo accompagnare Luca nelle campagne intorno a Firenze per un convegno organizzato da Medicina Democratica. Non era facile farlo salire e scendere dalla sua macchina nonostante il papà – l’ingegner Pieri – fosse proprio un esperto in adattamenti auto. Ma questa difficoltà proveniva dal corpo di Luca: che dire del suo corpo, era grande, esprimeva forza ma soprattutto era un corpo indomabile, imprevedibile, mosso da intenzioni varie e contrastanti che dipendevano solo in parte da lui. Questo voleva dire, ogni volta che viaggiavi, ingaggiare una lotta con il suo corpo, spalleggiati dai consigli che Luca dava ai suoi operatori.
Quel giorno al ritorno ci siamo persi. Io continuavo a girare per delle stradine strette tra due muri a secco che si diramavano, si incrociavano e formavano un vero labirinto. Non trovavo un modo per uscirne. Ogni tanto Luca mi diceva qualcosa da dietro ma, quando guidavo, non riuscivo a sentire la sua voce e a capirlo. A un certo punto ho infilato una stradina che terminava di fronte a un altro muro a secco. C’era silenzio, si sentiva solo il rumore degli uccelli e la luce di un sole tiepido di primavera rendeva il paesaggio delizioso e allegra la situazione, nonostante ci trovassimo di fronte a un muro. Lì, fermi in macchina, abbiamo sorriso.

Luca, come altri che ho conosciuto in quel periodo, apparteneva a un tipo di persona disabile nuovo, che ancora non esisteva in Italia. Erano persone con disabilità fisica ma con un intelletto di pregio, anche se questo non sarebbe bastato a farli diventare quello che erano, persone nuove che volevano avere una vita come tutti gli altri e cioè volevano studiare, lavorare, sposarsi e avere figli. Quella cosa in più che li ha fatti diventare così, era un famiglia alle loro spalle, una madre, un padre, a volte tutti e due assieme, che avevano interrotto la tradizione di mandare i propri figli disabili in istituto o di segregarli in casa, no questo non l’avevano fatto e, a un prezzo altissimo, avevano percorso altre strade. Spesso queste strade poi li portavano ad associarsi ad altre famiglie.
Il frutto di tutto questo percorso erano loro: Luca, Claudio, Andrea, Stefano… i disabili nuovi che hanno studiato, lavorato, hanno avuto una compagna e dei figli. Raramente queste cose sono capitate tutte assieme, qualcosa non aveva funzionato, qualche obiettivo non era stato raggiunto, diciamo che Luca era fra quelli che ci era andato più vicino ad avere tutto.
Per motivi di lavoro oggi seguo alcuni influencer disabili sui social come Facebook e Instagram. Le loro modalità di espressione, i mezzi che usano, la diffusione dei loro messaggi, sono molto diversi rispetto a quelli degli anni in cui Luca si era formato e aveva cominciato a proporre un’immagine nuova della disabilità, anzi della diversità, come si dice oggi, ma vorrei sottolineare il fatto che gli influencer di oggi esistono anche grazie agli influencer predigitali come Luca, Andrea, Claudio, Stefano… che promuovevano con i mezzi di allora – le riviste e gli incontri personali, qualche rara apparizione in tv – una cultura diversa, dove i concetti di normalità e omogeneità venivano posti in discussione.

Un’altra volta, non chiedetemi il perché, era andato a casa sua a trovarlo, anni dopo, forse per un’intervista. Mi ha portato in giro per le stanze del suo appartamento per farmi vedere come era accessoriato; nella camera da letto, Carla, sua moglie, mi ha mostrato un meccanismo abbastanza complesso che faceva coricare in modo automatico il corpo ribelle di Luca. I meccanismi, del resto, ci volevano proprio per superare tutte le barriere architettoniche che ogni giorno incontrava. Anni prima, quando abitava ancora con i genitori, a ogni ritorno lo dovevo infilare in un montacarichi che lo portava dal pianterreno al piano rialzato dove la sua famiglia abitava. Era un appartamento condominiale ma la sua casa aveva un piccolo giardino di proprietà e attraverso un vialetto si arrivava a questo montacarichi personale. La vita di Luca, come quella di tutte le persone disabili, era un continuo adattamento, una personalizzazione per poter vivere come gli altri.

La voce, la voce era come il corpo, usciva a getti, le parole schiacciate dal respiro e dalle contrazioni del volto. Non era facile capirlo se non si era un abituati a lui. Ho avuto modo di sperimentarlo in una esperienza che abbiamo fatto assieme. Nel 1991 lavoravo alla rivista Accaparlante e in redazione avevamo deciso di scrivere un’intera monografia sul tema del lavoro delle persone disabili in collaborazione con la Cgil di Bologna. L’occasione ci veniva data proprio dall’esperienza di borsa lavoro che Luca aveva fatto per due anni all’interno dell’organizzazione sindacale. Per due anni ha documentato la difficoltà che aveva una persona disabile a trovare e a mantenere il proprio posto di lavoro. Anche alla Cgil, durante quel periodo, non aveva trovato un luogo accogliente come lui aveva sperato. Mi dispiace aver poi saputo che quello del lavoro è sempre stato un problema per lui e che per tutta la vita, nonostante le sue capacità, non abbia trovato il suo posto.

Poi ci siamo persi di vista. Ogni tanto avevo notizie su di lui, la sua collaborazione con l’associazione Papa Giovanni XXIII, il suo impegno pacifista che lo aveva portato in Croazia subito dopo la guerra nell’ex Jugoslavia.
Se non ricordo la prima volta che l’ho incontrato da obiettore, ricordo però benissimo l’ultima volta. Ci siamo rivisti l’anno prima dell’inizio pandemia nella tradizionale manifestazione pacifista che si tiene a Bologna il primo gennaio. Una coperta o un tabarro copriva lui e in parte la sua carrozzina, aveva delle cannule infilate su per il naso, mi sembrava affaticato.
Bologna è piccola, anzi no Bologna è una città grande dove si fanno molte cose ma a volte diventa piccola. Da qualche anno una mia amica ha comprato una casa con un giardinetto. Una sera d’estate mentre cenavo all’aperto da lei mi sono avvicinato al giardino vicino e ho guardato al di là della rete. Ho visto quel montacarichi, il montacarichi di Luca. Avevo completamente scordato il nome della via ma quel particolare mi aveva permesso di riconoscere il luogo. Il montacarichi era oramai abbandonato, sbarrato, con i vetri impolverati, nessuno lo usava più. Ma era il montacarichi di Luca.