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Nello Scavo è inviato speciale di Avvenire e collaboratore di diverse testate estere. Ha raccontato la rotta balcanica e le condizioni dei migranti in Libia, riuscendo anche ad entrare in un campo di prigionia. È stato inoltre tra i giornalisti più presenti sulle navi di salvataggio dei migranti e ha recentemente documentato la nuova rotta tra Bielorussia, Polonia e Lituania. Lo abbiamo incontrato in occasione del festival CinemAfrica (15- 17 ottobre) dove ha presentato il film di apertura Eyimofe.

Di migranti e migrazioni si parla spesso, tuttavia la narrazione sembra rimanere ancora a un livello molto superficiale e questo determina anche una distorsione della percezione del fenomeno. Come si può iniziare a cambiare questa narrazione?

Questo tema è stato utilizzato negli ultimi anni come una delle più potenti armi di distrazione di massa. Se n’è parlato molto per alimentare la paura, seminare divisioni, costruire muri e soprattutto per consolidare posizioni politiche, a sinistra come a destra. (Le polemiche che mi riguardano sono cominciate con un ministro dell’Interno del PD e sono proseguite con un ministro della Lega). Il problema delle nostre narrazioni è che parliamo di migranti ma non parliamo con i migranti. La loro voce è sempre in sottofondo e diamo per scontate una serie di letture occidentalizzate. In fin dei conti sappiamo molto poco di loro e di ciò che li spinge a partire. Questo riguarda tutti, lo dico anche in chiave autocritica, perché c’è un’ideologia del bene. Io sono dell’idea che i più deboli non sono sempre i migliori, ma è giusto raccontarli e stare dalla loro parte, capire perché sono i più deboli. Purtroppo la narrazione risente di uno schema che è politicamente polarizzato e che non aiuta a far conoscere meglio queste persone. La stessa idea che esista una cinematografia africana è per molte persone sorprendente, perché si immaginano l’Africa come immersa nella povertà e incapace di produrre arte. Noi sappiamo molto poco dell’arte o della letteratura africana: in parte per pigrizia, ma anche per timore di doversi confrontare con un universo che mette in discussione una serie di certezze o comodità che ci siamo conquistate a scapito di altri.

In che modo la pandemia ha influenzato e sta modificando il fenomeno migratorio?

Ha influito soprattutto sulla repressione. Per la prima volta l’Italia ha veramente chiuso i porti e non sono stati Salvini o Minniti, ma il governo attuale (insieme a Malta) che aveva il timore che il Covid potesse arrivare dai barconi dei migranti. Nonostante ciò le persone hanno continuato ad arrivare. D’altra parte c’è stata anche molta paura da parte della popolazione perché ci sentivamo tutti più vulnerabili e più poveri. In un momento del genere l’idea della condivisione, quando nell’immaginario comune l’immigrato è quello che viene a rubarti il pane o il lavoro, ha prodotto preoccupazioni e conflitti. Nel caso particolare della Libia il risvolto peggiore è stato che prima le violazioni dei diritti umani erano denunciate da giornali e ONG e la politica fingeva di non sapere. Poi con il Covid si è continuato a pagare milizie e clan mafiosi purché tenessero le persone nei campi di prigionia perché la priorità era evitare che le persone partissero. In realtà i flussi non si sono fermati del tutto, anzi sono aumentati. Nel frattempo la situazione è peggiorata anche in Tunisia, che si è molto impoverita e ha visto molti migranti partire. E poi c’è la situazione terribile della rotta balcanica, dove d’inverno si vedono le famiglie attraversare campi innevati con scarpe di plastica. Mentre l’unica risposta che riesce a dare l’Europa è pagare paesi terzi per trattenere migranti. L’impressione è che la pandemia sia stata usata per legittimare le politiche di respingimento.

A proposito di Europa, è stato recentemente adottato il nuovo piano UE contro il traffico dei migranti. È uno strumento sufficiente?

Sono appena stato in Polonia, Lituania e Bielorussia dove sta accadendo quello che è già successo in Libia e in Turchia. A causa delle sanzioni che ha subito da parte dell’UE Lukashenko sta facendo arrivare profughi anche dall’estremo Oriente per poi ammassarli sui confini dell’Europa, come se fosse una rappresaglia. La scorsa settimana cinque persone, tra cui anche un bambino, sono morte di freddo. La risposta dell’Europa è continuare a costruire altri muri e a respingere le persone. Nel frattempo Erdoğan sta approfittando della crisi afghana, mostrando lo spauracchio di centinaia di migliaia di persone che potrebbero rifugiarsi in Europa. L’impressione è che ancora una volta l’Europa non si sta confrontando con la propria essenza, ma chiede ad altri di fare il lavoro sporco al posto suo. Credo che avendo messo in crisi la primazia dei diritti umani nel continente europeo non possiamo aspettarci molto di buono per i prossimi anni. L’Europa si fondava sulla comune condivisione del valore supremo dei diritti umani, che nascono in Europa. Fare accordi e negoziare sull’accoglienza significa minare alle radici dell’Europa, se vogliamo alle radici giudaico-cristiane, di cui è rimasto ormai molto poco.

Un commento sulla vicenda di Mimmo Lucano?

Io conosco Mimmo Lucano e so che è sempre molto netto nelle cose. A un certo momento forse è stato costretto ad oltrepassare alcuni confini della legge per salvare vite umane. Ricordiamo il caso di Becky Moses che pur di non tornare nel suo paese d’origine (come previsto dai Decreti sicurezza) è andata a lavorare come una schiava in un campo dove ha trovato la morte in un incendio. Se il principio del rispetto della legge è assoluto bisogna però domandarsi se la legge è giusta. Se non ci si interrogasse su questo gente come Giorgio Perlasca, Papa Francesco o Oskar Schindler sarebbero finiti in galera.