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di Marta Volo/ Come scrive Zygmunt Bauman, oggi viviamo le nostre vite divisi in due categorie: turisti e vagabondi. Infatti, guardando alla stratificazione della società postmoderna, la misura che definisce oggi quelli in alto e quelli in basso, è il loro grado di mobilità. L’abolizione dei visti di ingresso e una maggiore rigidità verso l’immigrazione rappresentano come ormai l’accesso alla mobilità globale sia al primo posto tra i fattori di questa emergente polarizzazione.
Gli esseri umani razionali vogliono chiaramente andare “dove il cibo è abbondante”, e lasciarli agire secondo la loro volontà è quanto la coscienza dovrebbe suggerire come comportamento corretto e moralmente preferibile. La sfida culturale, però, secondo il sociologo, è davvero terribile, dal momento che si deve negare agli altri il diritto alla libertà di movimento, un diritto, allo stesso tempo, tanto ostentato da parte dei media e considerato il massimo risultato della globalizzazione mondiale.

“Siamo ostaggi del nostro benessere, per questo i migranti ci fanno paura” (Goldkorn W., la Repubblica, 15 giugno 2015.): noi turisti viaggiamo quando vogliamo, indotti a farlo e traendone piacere; i vagabondi, invece, viaggiano da clandestini, spesso illegalmente e ciononostante li guardiamo con disprezzo. Quello che, secondo Bauman, ci dimentichiamo è l’atteggiamento che ci accomuna: turista e vagabondo sono entrambi dei consumatori tardo moderni che cercano sensazioni e vedono il mondo come una fonte di possibili esperienze, sebbene con potenziali di consumo differenti.
“Ma i due destini e le due esperienze di vita, che pure scaturiscono dai comuni problemi esistenziali, creano due percezioni nettamente diverse del reale, cioè dei mali del mondo e dei modi per curarli – diverse, ma con le stesse debolezze, per la tendenza a sottovalutare la reciproca dipendenza, e la reciproca contrapposizione, che li legano”. (Bauman Z., Dentro la globalizzazione: le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 1999, p.109.)

Oltre la solitudine della marginalità

Trieste ci fa pensare al concetto di solitudine e di marginalità, anche se non abbiamo avuto modo di vederlo. L’abbiamo sentito nelle parole degli operatori e nei ragazzi, l’abbiamo percepito nei luoghi della città. Ma non l’abbiamo visto. Solitudine rispetto al posto in cui ci si trova, rispetto al paese da cui si viene e dagli affetti cari. Marginalità rispetto alle istituzioni e a tutto ciò che ci permette di divenire parte integrante di una realtà e fautori della nostra esistenza.
Documento documento documento. È un’onda alta, una strada senza fine. Come un mutuo che non hai mai richiesto, c’è sempre qualcosa da pagare.

Trieste è stata per lo più illuminante, è stata ponte e non frontiera. Ha fatto emergere in noi il desiderio di un impegno collettivo per creare un’informazione pulita, e smontare narrazioni e luoghi comuni. Ci ha trasmesso nuovamente fiducia vedendo e incontrando altre persone (sebbene una minoranza) che si adoperano per una realtà diversa, prendendo posizione politica e non. Ora la palla passa a noi: dobbiamo decidere se cogliere questa opportunità, o se lasciarla scorrere tra le tante. Se fermarci alla riflessione dell’esperienza o andare oltre.
“Siamo tutti profughi senza fissa dimora nell’intrico del mondo. Respinti alla frontiera da un esercito di parole, cerchiamo una storia dove avere rifugio”. (Wu Ming 2, Antar Mohamed, Timira Einaudi 1)

Questa potrebbe essere una delle nostre occasioni per trovare rifugio e per “farci storia” attraverso la collaborazione, il confronto e la crescita con l’altro. Trieste non mi lascia indifferenza, cosa con cui faccio già i conti ogni giorno ma da cui non riesco mai ad uscire veramente. Trieste mi dà fiducia e voglia di sfruttare la nostra posizione di privilegio, il nostro essere turisti, insieme.

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