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di Federica Lombardi/Per chi vive all’ombra delle sbarre e per chi attende fuori, i colloqui in carcere non sono semplici appuntamenti: sono l’unica, vitale boccata d’aria. Eppure, questa possibilità, che dovrebbe essere un pilastro per il mantenimento dei legami e un ponte verso il reinserimento sociale, si trasforma troppo spesso in un vero e proprio calvario, un percorso a ostacoli che mette a dura prova la resistenza umana e la solidità dei rapporti più profondi.

Il tempo, fuori, scorre in modo diverso; qui, tra le mura di cemento, si dilata nell’attesa e si contrae in attimi preziosi, scanditi da regolamenti e da un’ansia palpabile. Per centinaia di famiglie, il giorno del colloquio è un rituale fatto di speranze, frustrazione e amore incondizionato. È il giorno in cui il mondo di dentro e il mondo di fuori cercano disperatamente di toccarsi.

L’alba non è ancora spuntata che già le file cominciano a formarsi: madri anziane con borse pesanti, giovani mogli con passeggini e bambini dagli occhi stanchi, la cui innocente curiosità è già appesantita dalla tristezza, si chiedono il senso di tanta attesa e sofferenza. Sono le lunghe file che ogni settimana si snodano davanti agli ingressi dei penitenziari, un serpentone silenzioso e paziente di affetti che aspettano il loro turno, sotto il sole cocente dell’estate che picchia impietoso sull’asfalto rovente, o il freddo pungente dell’inverno che penetra fin nelle ossa. L’attesa non è solo fisica, fatta di piedi stanchi e corpi intirizziti, ma è profondamente emotiva, trasformandosi in un conto alla rovescia verso un incontro troppo breve. Le voci si abbassano quasi istintivamente, i volti si fanno tesi, mentre il ticchettio dell’orologio sembra amplificato dal silenzio carico di aspettative e di un desiderio disperato di vicinanza. I racconti si mescolano, le esperienze simili creano una tacita solidarietà tra chi condivide lo stesso destino di attesa.

A questa sofferenza fisica e psicologica si aggiunge un iter burocratico lungo, complesso e spesso imprevedibile, fatto di permessi da ottenere, che richiedono tempo e pazienza, documenti da presentare e regole che possono cambiare senza preavviso. Un labirinto di carte e procedure che trasforma ogni accesso in una battaglia estenuante, logorando le energie e la pazienza di chi già porta il peso della separazione. Molti, per poter abbracciare i propri cari, devono affrontare lunghi e costosi viaggi, venendo da lontano per poi ritrovarsi a disposizione un tempo irrisorio: appena due ore a settimana. Un lasso di tempo che, seppur prezioso, è drammaticamente insufficiente per condividere la quotidianità che fuori scorre senza sosta. Ogni arrivederci è ancora più doloroso e la distanza percorsa ancora più amara, sapendo che passerà un’altra settimana prima di poter rivedere quel volto.

Un altro elemento cruciale di questa complessa dinamica è il pacco. Non è un semplice contenitore di beni materiali, ma un cordone ombelicale che porta un frammento di casa, un sapore familiare, un profumo che ricorda la vita di prima. Maglioni puliti, scelti con cura per dare calore e un senso di normalità; cibo, piccole prelibatezze proibite o difficili da trovare all’interno, che rappresentano un legame con la tavola di casa. Ogni oggetto è un segno concreto di cura e affetto che va oltre le parole. Ma anche qui, la burocrazia impone le sue regole ferree: dimensioni, peso, tipologia di contenuto, tutto è sottoposto a un controllo rigoroso, trasformando un gesto d’affetto spontaneo in una preparazione meticolosa e spesso frustrante, dove ogni minima inosservanza può significare il rifiuto del pacco e la conseguente delusione per chi lo ha preparato e per chi lo aspettava.

E poi c’è lui, il gesto più semplice eppure il più negato, il simbolo più crudo della privazione: il bacio mancato. Per motivi di sicurezza, i contatti fisici sono rigidamente regolamentati, ridotti all’osso, quasi annullati. Un abbraccio veloce all’inizio e alla fine – a volte neanche quello – un contatto fugace che non riesce a trasmettere la pienezza dell’affetto: è tutto ciò che è concesso. Le mani si sfiorano fugacemente, in un tentativo disperato di trovare un contatto, mentre gli sguardi si incontrano con un’intensità quasi dolorosa, un’espressione muta che deve compensare l’assenza del contatto fisico. Sotto lo sguardo costante e vigile degli agenti penitenziari, ogni espressione di affetto è contenuta. Non c’è spazio per la spontaneità, per la tenerezza che nutre un legame profondo, per il conforto di un tocco prolungato. Ogni movimento è misurato, ogni parola sussurrata, in un’atmosfera di controllo e sorveglianza che rende difficile persino respirare liberamente l’amore che si prova, trasformando il colloquio in una rappresentazione teatrale di un rapporto, piuttosto che la sua autentica espressione.

Questa combinazione di attese estenuanti, burocrazia opprimente, tempi irrisori, difficoltà logistiche e la straziante assenza di intimità, non si limita a mettere alla prova i legami: li ferisce profondamente. Ogni attesa infinita, ogni bacio mancato è una cicatrice nell’anima di chi ama e di chi è amato. I familiari, pur con la loro instancabile dedizione, si sentono impotenti di fronte a un sistema che isola, anziché connettere. I colloqui rischiano così di trasformarsi in un simbolo amaro di un’alienazione che il carcere, per sua stessa natura, fatica a superare. È una realtà che grida nel silenzio delle mura, una scia di affetti spezzati e speranze infrante che chiede di essere vista, compresa e cambiata.