di Federica Lombardi/È da otto anni che ogni martedì ho un appuntamento fisso con la redazione “Ne Vale la Pena”, un laboratorio di giornalismo presente all’interno di un universo parallelo, quello del carcere.
Ogni volta che mi avvicino a quel portone imponente, il rituale è lo stesso. “Nome e cognome, per favore.” Pronuncio il mio nome a voce chiara, mentre l’agente penitenziario controlla il documento, confrontando il volto con la foto. Dopodiché ogni oggetto personale che mi lega al mondo esterno – borsa, cellulare e chiavi – lo ripongo nell’armadietto. Non solo. Anche le distrazioni e le preoccupazioni della vita di “fuori” vengono chiusi. Entro così in questo cubo di cemento con le mani libere e la mente più sgombra.
Il primo cancello si apre con un ronzio meccanico, un suono che è diventato familiare, poi si richiude alle mie spalle con un tonfo sordo e definitivo. Poi il secondo, il terzo, ognuno con il suo clangore metallico, il suo scatto che risuona nel silenzio dei corridoi. Questo rito, ripetuto centinaia di volte, è un segnale inequivocabile che sono arrivata, che il mio appuntamento è iniziato.
Con il passare degli anni, il carcere ha smesso di essere solo un edificio o un’istituzione.
È diventato una mia seconda casa. Non per il comfort.
Otto anni sono un tempo sufficiente per navigare un oceano di emozioni. L’empatia è
diventata una compagna costante, ma anche una sfida. C’è anche la rabbia, a volte, per le
ingiustizie percepite, per le opportunità mancate, per la sensazione di impotenza di fronte a
destini che sembrano già segnati da un sistema che fatica a responsabilizzare. E poi c’è la
gioia, pura e inattesa, per un articolo ben scritto che rivela un talento nascosto, una
riflessione profonda, un sorriso inaspettato che illumina un volto segnato.
La redazione è il luogo dove le etichette cadono, dove la penna e il foglio diventano
strumenti di libertà. Attorno a quel tavolo ho conosciuto la complessità del sistema
penitenziario, le sue luci e le sue tante ombre, le sue sfide e le sue contraddizioni. Ma, più di
ogni altra cosa, ho conosciuto un’umanità variegata, spesso ferita ma sempre capace di
sorprendere, di insegnare, di sperare. Ed è per questo che sono diversa ogni volta che esco.
Ogni martedì, quando il cancello si chiude alle mie spalle e ritorno alla mia vita, non sono la
stessa persona che è entrata. Porto con me un frammento di quelle vite, una maggiore
consapevolezza della complessità umana e della preziosità della libertà. Il carcere è un
luogo che mi insegna, mi sfida e, in un modo profondo e silenzioso, mi cambia, un martedì
alla volta.