di Igli Meta / Ne avevo paura, ma l’avvocato mi rassicurava. Invece è accaduto. Stavo tornando dal lavoro un venerdì pomeriggio e sulla porta di casa i carabinieri mi hanno fermato: “Deve venire con noi in caserma per una notifica”. L’ottimismo dell’avvocato non serviva più a nulla.
Passo dalla caserma per la notifica, per sentirmi dire che sono stato raggiunto da un mandato d’arresto e devo essere condotto in carcere.
Sono seduto dentro la macchina dei carabinieri, le sirene suonano senza necessità, da far pensare che l’unico scopo sia quello di trapanarmi il cervello. La volante si ferma davanti a un enorme portone blindato che comincia ad aprirsi lento lento con un suono stridente: per la pesantezza del suo metallo, la scarsa lubrificazione e, soprattutto, per il peso e il ruvido di ciò che rinchiude. La sua lentezza mi concede l’illusione di un istante in più di estraneità da quel mondo che sta per inghiottirmi.
Intorno solo mura di cinta altissime di color grigio. Il cuore accelera per la paura di quello che sta per accadere. Sarà davvero un inferno in terra quello che sto per varcare? Quell’inferno dantesco che ti accoglie con l’invito “lasciate ogni speranza o voi che entrate”? I carabinieri depositano le pistole prima di valicare quella porta; nemmeno loro possono entrare in carcere con armi.
Una volta dentro la struttura i carabinieri mi affidano alla polizia penitenziaria.
Vado dapprima nell’area dell’accettazione dove vengo immatricolato come nuovo giunto e dove mi vengono poste le domande di rito (nome, cognome, residenza…) e per altri riti: foto segnaletica, impronte digitali… Successivamente passo davanti al medico che mi fa le domande del caso. Per lui sono solo un paziente in più da seguire.
Prima di essere collocato nel reparto detentivo, dove sono ristretti gli altri reclusi, devo sottopormi all’ispezione corporale per evitare che si introducano oggetti non consentiti.
Vengo denudato, ma, come se non bastasse, devo fare alcune flessioni davanti a loro. Ho l’impressione che la mia dignità resti per sempre a terra, anche dopo che avrò indossato i miei vestiti. Cintura, braccialetti, orologio e collane mi vengono tolti. Resteranno al casellario fino alla mia liberazione. Vengo privato della misura del tempo che passa e di quel gesto così abituale e rassicurante di controllare l’ora al polso. Con il cellulare, il portafoglio e i vari documenti di riconoscimento vengo privato della mia identità. Sono diventato un mero numero di matricola.
Nell’ufficio accettazione mi viene consegnato il kit di lenzuola, federa, coperta e insieme a queste anche due piatti insieme alle posate. Ovviamente senza coltello.
Prima di essere ubicato in un reparto ordinario sosterò nella sezione di transito dove sono ristretti tutti i nuovi giunti. La permanenza in tali reparti dura solitamente una settimana, finché si trova una collocazione nei reparti normali.
Sono stato arrestato di venerdì sera. Il carrello della cena è già passato. Ma non è il cibo la mia prima ragione di angustia. Lunedì sarei passato a un contratto a tempo indeterminato. Domani avrei dovuto presentarmi al lavoro per confermare la mia affidabilità. Vorrei informare il datore di lavoro della mia assenza. Anche se temo di aver perso per sempre l’occasione tra le più importanti della mia vita.
Mi sarebbe concessa una telefonata al mio avvocato, ma il suo numero è nella memoria del cellulare, non nella mia. Confido che ci sia una rubrica degli avvocati negli uffici della Matricola.
Con il sacco nero in mano, dove ci sono tutti gli oggetti dati in dotazione dall’amministrazione, seguo l’appuntato che cammina con spensieratezza nei lunghi corridoi con bassi soffitti. In ogni angolo ci sono telecamere, finestre sbarrate e cancelli automatici che si aprono al nostro passaggio.
Fuori è notte. L’agente della polizia penitenziaria apre la cella dove sarò collocato. La luce della cella è spenta, ma è illuminata dalla televisione che è accesa. Il detenuto che è sdraiato sul letto si alza e mi viene incontro porgendomi la mano e presentandosi. È molto accogliente e mi tratta come un vero ospite, facendomi sentire per un breve momento una persona.
Prende il materasso e mi aiuta a fare il letto con uno stile tutto particolare, che poi capirò essere una peculiarità di questo luogo, per evitare che si formino le pieghe.
È tardi. Il mio compagno si è addormentato, ma io non riesco a prendere sonno. Tutto questo non mi sembra vero. I pensieri mi tormentano. Mi chiedo la mia famiglia come sta? Cosa starà facendo? Quando li potrò sentire o vedere? Dentro la mia testa ci sono tante domande a cui non ho una risposta.
Mi giro e mi rigiro, ma niente da fare, non riesco proprio a dormire. Il materasso scomodo non aiuta a prendere sonno. Stavo per addormentarmi, ma vengo svegliato da urla e rumori che provengono dalla cella di fronte. Il trambusto non si ferma finché non arrivano gli agenti.
Il giovane “agitato” dice di star male poiché in astinenza. Si sente aprire la porta e il recluso andare via da qualche parte.
Sento una voce che ripete diverse volte “latte, caffè”. Non so se sto sognando, o meno. Mi alzo di sobbalzo, ma non riesco a capire cosa succede e dove sono. Ci metto qualche frazione di secondo a realizzare che sono in carcere. Il mio compagno di cella si è già svegliato e ha 2 caraffe di latte e caffè nelle mani.
È sabato, fuori dal reparto c’è movimento. Il mio compagno fa colazione e mi dice di mangiare, ma io non ho fame.
Comincio subito a fargli tantissime domande su come funziona in carcere, visto che lui è stato dentro diverse volte. Ciò che mi preme di più riguarda la possibilità di poter vedere o chiamare i miei cari. Lui mi spiega tutte le procedure, ma capisco che non è una cosa immediata. Per poter fare la telefonata si devono compilare alcuni moduli eppoi deve essere allegato anche il contratto telefonico del numero che devo chiamare. Capisco che prima di fare la telefonata passerà qualche settimana, però c’era la possibilità che il mio avvocato o i miei familiari vengano a trovarmi.
Il mio compagno esce all’ora d’aria, ma io rimango in cella ad aspettare che qualcuno mi chiami. Le ore passano ma nessuno arriva. Chiuso in una cella fatiscente, cammino su e giù in uno spazio di pochi metri quadrati.
Una voce alta proviene dalla sezione: “Si mangiaaa, si mangiaaa”. Qualcun altro ridendo aggiunge “Si mangia e non si paga”. Il mio compagno mi dice che è arrivato il pranzo. Erano 24 ore che non mettevo cibo in bocca, però vedendo e assaggiando quella pietanza mi si chiude completamente lo stomaco: la pasta è scotta e non ha alcun sapore.
Al pomeriggio il mio compagno di cella va di nuovo all’aria, e io rimango da solo in cella. Speravo che qualcuno si facesse vivo e mi chiamasse, invece niente. Chiedo informazioni sul colloquio anche all’appuntato in servizio, ma lui mi dice che ormai è tutto chiuso.
Sono preoccupato sulla condizione dei miei figli e di mia moglie. Non potevo avere alcuna notizia di loro.
Il sole cala e un’altra notte si presenta difficile. I pensieri mi tormentano. Cosa penseranno di me i miei genitori? Mi perdoneranno per quello che ho fatto? La mia testa è un frullato di pensieri negativi. I miei cari mi avranno forse abbandonato?
Non riesco più a trattenere le lacrime e comincio a piangere a dirotto sotto la coperta. Il mio compagno dorme, ma io non riesco a prendere sonno. Di nuovo, il recluso davanti alla mia cella comincia a sbattere forte contro la porta urlando a squarciagola.
Gli agenti dopo qualche minuto si presentano da lui. L’atmosfera si sta surriscaldando, si sentivano oggetti che si rompono. Il ragazzo dice di star male, ma gli agenti rispondono che il dottore era impegnato altrove. Per curiosità scendo dal letto e mi metto vicino alla porta per vedere quello che sta succedendo. Non riescono a tranquillizzarlo. Infine, minaccia di tagliarsi. Infatti, a un certo punto, tira fuori qualcosa, sicuramente una lametta, e comincia a tagliarsi le braccia. Il sangue gli colava su tutti i vestiti. Lui continua a inveire “Ecco così volete voi altri, sennò non riuscite a capire”.
Dopo un po’ gli assistenti gli aprono la cella e lo portano in infermeria.
I raggi di sole battono sulla mia fronte, fuori è una bella giornata. Il mio compagno di cella mi dice: “svegliati che sono le 10”. Penso: oggi è domenica. A quest’ora andavo a fare colazione con mia moglie. Chissà cosa starà facendo lei oggi?
Comincio a parlare con il mio compagno di cella e a fargli di nuovo domande. Lui mi dice che di domenica è tutto chiuso e fermo. Non ci sono visite né da parte dei familiari né da parte degli avvocati. Notizia devastante. Un altro giorno senza alcuna possibilità di sentire i miei cari. Il mio compagno mi dice che posso scrivere delle lettere e spedirle. Aggiungendo che lettere ci avrebbero messo almeno 3 giorni per arrivare a destinazione. L’amministrazione dovrebbe assicurarti penna, busta e francobollo. Ma imparerò presto che devo chiedere in prestito una penna per compilare la “domandina” con la quale chiedere che mi venga data una penna… che comunque potrò sperare solo dai volontari o dagli altri detenuti, insieme alla busta e al francobollo.
La domenica la trascorro a scrivere tante lettere, finché anche i fogli che il cancellino mi dà finiscono. Piego i fogli in quattro e li metto dentro una busta. Imbuco quest’ultima nella cassetta della posta presente all’interno del reparto, sperando che arrivino a destinazione il prima possibile. Imparerò presto che l’avverbio presto non c’è nel dizionario del carcere.