di Alex Frongia / Nell’isolamento del carcere rispetto al mondo esterno, non c’è il tempo né il modo per stare da soli. Due detenuti per cella per venticinque celle, un totale di cinquanta detenuti per ogni sezione. Questo sovraffollamento di persone causa un continuo rapporto forzato con tutti gli abitanti della sezione.
Ci si osserva ogni giorno, ci si scruta con l’occhio sempre vigile, per capire chi sia il detenuto chiamato a lavorare questo mese, qual è quello che veste con abiti firmati, chi cucina sempre pietanze gustose, reperite tramite colloquio o acquistate dal sopravvitto. In carcere le differenze economiche tra i detenuti sono enormi e visibili dalle cose più basilari, come gli alimenti, i vestiti, le sigarette. La differenza più grande la crea l’istituto stesso, dando lavoro ad alcuni detenuti piuttosto che ad altri. In mezzo a tutto questo caos e a questa guerra di sopravvivenza, c’è un clima di invidia e di ipocrisia dove è difficile instaurare veri e propri rapporti d’amicizia.
Poche volte però accade quella magia: ti capita di trovare quel detenuto che, per la tipologia di vita, di cultura, di tradizioni e di educazione, aiuta a far nascere quel rapporto sincero di fiducia reciproca. Diventa così la persona che più vedi durante la giornata, la persona con cui passi più tempo forse in tutta la durata della tua esistenza. Si mangia insieme, si prende il caffè, ci si confida. Si parla delle rispettive famiglie e delle mancanze che spesso e volentieri sono le stesse. È bello sentirsi compresi, gioire per le notizie positive e condividere i dolori e gli affanni negativi della carcerazione.
La detenzione fortunatamente è un ciclo: ha un inizio ed una fine. Questa fine, purtroppo, quasi mai corrisponde allo stesso periodo con l’amico/fratello detenuto. Quando per lui arriva il tanto atteso momento della libertà, in te salgono delle emozioni contrastanti: la gioia, la felicità di vederlo e saperlo felice insieme alla sua famiglia. D’altro canto, però, egoisticamente pensi: “E adesso io rimango qui?” Ci si saluta, ci si abbraccia e si versa qualche lacrima. Qualche minuto di applausi, un colpo al blindo per far rumore e far sentire a tutte le sezioni che sta uscendo un tuo amico, uno che è voluto bene ed è stimato in sezione. La cella viene riempita subito nel giro di poche ore, mentre il vuoto che ti rimane dentro ci mette un po’ ad essere colmato.
Nei giorni successivi alla sua scarcerazione lo cerchi, lo pensi, vorresti ritrovarlo in quella cella, dato che l’abitudine ti porta a pensare che lui è sempre lì, come lo è stato per molti anni. I racconti di altri, il parlare di lui, mantengono vivo il ricordo e fanno scappare sempre un sorriso. Il carcere è un luogo brutto, di sofferenza ma nello stesso si possono conoscere davvero le persone, nel loro essere, nella loro totalità bella o brutta che sia. E l’amicizia, quando si crea, diventa come una fratellanza, e anche se non la si può vivere per un determinato tempo, chi l’ha conosciuta non può di certo non accettare che essa è indelebile nel proprio cuore.