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di Maurizio Bianchi/In carcere, l’aria di disuguaglianze sociali si respira in ogni angolo. Spesso le condizioni finanziarie rimangono le stesse da fuori a dentro, perché soltanto il 15% della popolazione carceraria ha l’opportunità di lavorare e quindi di permettersi acquisti “extra” (al di fuori, cioè, dei beni di sopravvivenza forniti dall’amministrazione penitenziaria), che possono mitigare le povere condizioni della vita dentro: una cella di 12 metri quadrati, una brandina di ferro, un armadietto e acqua rigorosamente fredda e poco altro.

Ma non esiste solo la povertà finanziaria, in cui vivono molti di noi; esiste anche la povertà culturale, esistenziale, umana.

Per esempio, la gran parte dei detenuti stranieri, spesso in carcere per reati legati a povertà materiali, non ha ricevuto un’istruzione adeguata, in particolare non conosce bene la lingua italiana.

La povertà, si sa, ha accompagnato l’uomo nel suo lungo cammino attraverso la storia e le carceri che sono lo specchio della società esterna ne sono un riflesso fedele. Anche qui, infatti, assistiamo a furti, per esempio nei frigoriferi comuni, di chi, spinto dalla necessità, non ha perso il vizio. Non so se si può sostenere che in carcere vi siano solo poveri, ma una cosa è certa: la povertà non si misura solo con i soldi, perché proprio in un posto come questo ci si rende conto che si può essere poveri e ricchi al tempo stesso. La ricchezza che ogni detenuto conserva nell’anima è la speranza di riuscire al più presto da quest’incubo, ricostruendo la propria vita in maniera positiva per sé e per i propri cari.