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di Fabrizio Pomes / Quando le porte del carcere si aprono le persone credono di essere libere, ma sono solo libero di crederlo. È infatti una libertà dal sapore agrodolce quella che attende la vita del detenuto una volta terminata l’esperienza detentiva. La libertà è un concetto che va oltre le sbarre di una cella. Per molti ex detenuti, il ritorno alla società dopo aver scontato una pena rappresenta una nuova sfida, spesso più complessa della detenzione stessa.

Questa difficoltà si amplifica enormemente quando, come nel mio caso, alla perdita della libertà personale si aggiungono ulteriori restrizioni come l’interdizione perpetua dai pubblici uffici che di fatto è la perdita dei diritti di cittadinanza e l’imposizione di un’interdittiva antimafia.
L’interdizione perpetua dai pubblici uffici è una misura accessoria prevista dal codice penale italiano per alcuni reati particolarmente gravi. Questa sanzione comporta la perdita permanente del diritto di votare, di essere eletti, di ricoprire cariche pubbliche e, in alcuni casi, di esercitare professioni regolamentate. Per un ex detenuto, questa misura non solo limita le opportunità lavorative, ma lo esclude di fatto dalla partecipazione attiva alla vita democratica e sociale del Paese facendolo trovare spesso in una situazione di marginalizzazione sociale e politica.
La conseguenza più immediata è la perdita dei diritti di cittadinanza. Un ex detenuto interdetto si trova in una condizione di cittadinanza dimezzata: formalmente libero, ma privato di quei diritti fondamentali che permettono a un individuo di sentirsi parte integrante della comunità. Questo status di emarginazione giuridica si traduce spesso in un senso di esclusione e di impotenza, che può minare la motivazione a reinserirsi nella società. Mi viene a mente a tal proposito quello che cantava Giorgio Gaber “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.”

L’interdittiva antimafia invece costituisce uno strumento preventivo che mira a proteggere l’economia legale dall’infiltrazione criminale. Tuttavia, per chi ne è colpito, rappresenta un ostacolo quasi insormontabile nel percorso di riabilitazione sociale e professionale.
L’interdittiva antimafia, poi, rappresenta una barriera quasi invalicabile nel mondo del lavoro. Essa impedisce di avviare un’attività imprenditoriale propria, di ottenere licenze o autorizzazioni per esercitare professioni regolamentate, e di partecipare a gare d’appalto pubbliche.
Un ex detenuto in questa condizione si trova intrappolato in un limbo giuridico e sociale. Da un lato, ha scontato la propria pena detentiva, teoricamente “pagando il proprio debito con la società” dall’altro, continua a subire conseguenze che vanno ben oltre la privazione temporanea della libertà.
Queste restrizioni creano un circolo vizioso difficile da spezzare: senza possibilità di lavoro regolare, l’ex detenuto si trova spesso costretto a vivere ai margini della società, dipendente dal supporto familiare (quando presente) o da sussidi sociali insufficienti. Questa precarietà economica e sociale aumenta il rischio di recidiva, contraddicendo l’obiettivo rieducativo della pena sancito dall’articolo 27 della Costituzione italiana.

Le vie d’uscita da questa situazione sono limitate e spesso impervie. Il ricorso amministrativo contro l’interdittiva antimafia è possibile, ma richiede tempi lunghi e assistenza legale specializzata, spesso economicamente inaccessibile ai più. La riabilitazione penale, che potrebbe restituire alcuni diritti, è subordinata a requisiti stringenti e difficilmente raggiungibili proprio a causa delle limitazioni imposte.
Il sistema di reinserimento sociale così strutturato solleva seri interrogativi sul bilanciamento tra esigenze di sicurezza pubblica e diritto alla seconda possibilità. Se l’obiettivo della pena è anche quello di recuperare il condannato alla società, privarlo permanentemente della possibilità di costruirsi un futuro dignitoso può rappresentare una forma di esclusione sociale perpetua che va oltre le finalità della giustizia.
La sfida per una società che si definisce civile è trovare soluzioni che, pur tutelando la sicurezza collettiva, non neghinо completamente la possibilità di riscatto personale, evitando che la pena si trasformi, di fatto, in una condanna all’emarginazione permanente.

La domanda che sorge spontanea è: qual è lo scopo della pena? Se il sistema penitenziario dovrebbe avere come obiettivo principale la rieducazione e la reintegrazione del condannato, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici sembra contraddire di fatto questo principio. Mentre è comprensibile che alcuni reati comportino conseguenze gravi, una sanzione permanente rischia di trasformarsi in una condanna senza fine, che nega ogni possibilità di redenzione. Privare un uomo dei suoi diritti significa negargli la sua umanità e la misura della giustizia non dovrebbe essere la vendetta, ma la possibilità di ricominciare.
In molti casi, l’interdizione perpetua non tiene conto del percorso di riabilitazione intrapreso dall’ex detenuto. Anche chi dimostra di aver cambiato vita, di essersi impegnato in attività socialmente utili o di aver ricostruito relazioni familiari e comunitarie, rimane gravato da una sanzione che non ammette eccezioni. Questo approccio rigido rischia di vanificare gli sforzi di chi cerca di ricominciare.
“I diritti umani non sono un privilegio, ma una conquista di ogni essere umano. E nessuno dovrebbe essere privato di essi per sempre.” diceva Eleanor Roosevelt.
La storia di un ex detenuto non dovrebbe essere definita solo dal reato commesso, ma anche dalla capacità di riscatto e di cambiamento.

Per affrontare questa problematica, sarebbe necessario ripensare l’approccio alla giustizia penale, privilegiando modelli più flessibili e riparativi. Una possibile soluzione potrebbe essere l’introduzione di meccanismi di revisione delle interdizioni perpetue, che permettano di valutare caso per caso la possibilità di reintegrare i diritti di cittadinanza dopo un certo periodo di tempo e in presenza di comportamenti esemplari.
Inoltre, sarebbe fondamentale promuovere politiche di sostegno alla reintegrazione lavorativa e sociale degli ex detenuti, attraverso programmi di formazione, tirocini e collaborazioni con aziende disposte a dare una seconda opportunità. La società nel suo complesso dovrebbe riflettere sull’importanza di offrire percorsi di redenzione, anziché condanne senza fine.
Occorrerebbe una politica coraggiosa che non sia miope e proiettata solo sui sondaggi elettorali ma che lavori per costruire una società più giusta e inclusiva; è necessario bilanciare le esigenze di giustizia con quelle di riabilitazione, riconoscendo che ogni individuo merita una seconda possibilità.
Ma, come il gatto che si morde la coda, la popolazione detenuta, anche in virtù dell’imposta assenza dalle urne, è poco appetibile per i vari partiti che stentano a far decollare idonee iniziative di riforma e lasciando, chi come me ha la passione politica da quando aveva i calzoni corti, senza speranza e tagliato fuori dalla possibilità di portare il suo contributo alla crescita della sua comunità.