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di Mattia De Luca/Diceva Diego Armando Maradona che il calcio fa sparire la vita. Per 90 minuti (più recupero), la vita è delimitata da un rettangolo di gioco in cui correre da una porta all’altra con un pallone ai piedi.
I suoi problemi, le sue difficoltà, la routine, il bello e il cattivo tempo stanno da un’altra parte, in un altro spazio e in un altro tempo.
Certo, il campo prima o poi finisce, così come il tempo regolamentare scade, ma ogni domenica si ricomincia. È una routine rincuorante.
Il calcio è bisogno di sottrazione, momento di creazione, divertimento e avventura che è al riparo da tutto, luogo in cui si è padroni, al sicuro, lontani da ciò che si sente estraneo, capaci di dominare gli elementi e il contesto e di costruire e partecipare a trame, azioni o schemi, che in alcuni casi diventano storia (calcistica e non).
Il calcio è essere pienamente adulti e, nello stesso tempo, ritrovarsi dentro un’infanzia che, di volta in volta, rinasce.

Dice Fabrizio, uno dei partecipanti al corso di formazione nei mestieri del teatro presso la Casa Circondariale di Bologna Rocco D’Amato, o, per meglio dire, scrive Fabrizio, in un personale commento al lavoro che si sta svolgendo, giorno dopo giorno, nel laboratorio teatrale, che “il carcere non è semplicemente privazione della libertà”.
Metti, ad esempio, il caso di un sequestro di persona: “È qualcosa di qualitativamente diverso”, perché, dice e scrive sempre Fabrizio, “il sequestrato sa che la sua condizione è arbitraria e deve cessare quanto prima possibile e che, fuori, c’è chi si dà da fare a questo fine”. “La sua vita continua nell’attesa del momento e nell’attesa la vita continua”.
E continua Fabrizio, ricordando quanto scritto da Vittorio Foa, “uno che il carcere l’ha conosciuto davvero e a lungo”, in seguito alla sua osservazione del detenuto comune, quello non sorretto da legami familiari perduranti anche nel periodo di detenzione, da comunione d’interessi con altri detenuti, dalla viva fede in ideali politici e religiosi: “Non c’è futuro – scrive Foa – la speranza di salvezza viene meno. Il tempo si svuota. Si ripensa al passato o ci si rappresenta il futuro come in un’esteriore contemplazione priva di legami […]. Il peso reale della detenzione consiste solo nel progressivo svanire della volontà col decorso del tempo”.
Ecco, il tempo.
Dice Fabrizio che “l’essere umano” si decompone “in conseguenza dell’espropriazione e della nullificazione del tempo”. Eppure, il possesso del tempo della vita è proprio ciò che ci distingue dagli oggetti inanimati, che il tempo, con la sua azione logorante, lo subiscono inermi, e dagli animali, che il tempo non lo conoscono perché la loro esistenza “è ancorata agli istanti del presente”.
E dunque?
Sempre Fabrizio cita quella che per lui non è solo una canzone, ma “un bellissimo testo di vita e d’amore, una lezione di filosofia morale”. Qualcosa da aspettare, brano del 1959 di Fausto Amodei, i cui ultimi versi recitano: “Questa promessa è poi la sola cosa/ Che abbia un valore vero/ Ti fa sembrare un po’ color di rosa/ Il mondo anche più nero… / Basta che non ci debba mai mancare qualcosa da aspettare”.
Ciò che possiamo aspettare, chiude Fabrizio, è “ciò che trasforma la mera esistenza biologica in vita”.

E il calcio?
Il calcio è “l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo”, diceva Pasolini, è luce e ombra, è regole e falli tattici, è arbitro, cartellini, ammonizioni ed espulsioni, è gioia e dolore, è inferno e paradiso, è Maradona in Paradiso con il pallone ai piedi e Maradona all’Inferno senza pallone ai piedi.
Il calcio è corsa, ma è anche e, soprattutto, attesa.
90 minuti (più recupero).
Il calcio, per quanto possa sembrare banale a chi guarda con diffidenza al rettangolo verde, è come la vita, ed è per questo che abbiamo deciso di parlare di calcio per parlare di noi.