di Igli meta / L’arrestato è seduto dentro la macchina dei carabinieri, le sirene suonano di continuo a tal punto da rimbombare dentro la testa di chi vi è dentro. La volante è ferma davanti a un enorme portone blindato che comincia ad aprirsi lentamente con un suono stridente dovuto alla mancata lubrificazione, ma soprattutto alla pesantezza dell’acciaio con cui è fatto.
Intorno solo mura di cinta altissime di color grigio. I batti cardiaci dell’arrestato aumentano per la paura di quello che sta per accadere. Non gli sembra vero, ma sta per entrare in un inferno terrestre. Quell’inferno per cui anche Dante Alighieri avrebbe pronunciato di nuovo «lasciate ogni speranza o voi che entrate». I carabinieri depositano le pistole prima di varcare quella porta, perché in carcere non si può entrare con le armi.
Una volta dentro i carabinieri affidano la custodia dell’arrestato alla polizia penitenziaria. Nell’area dell’accettazione viene effettuata l’immatricolazione del nuovo “giunto” e vengono formulate tutte le domande di rito (nome, cognome, foto segnaletica…). Successivamente il medico registra un altro paziente in più da seguire, dopo aver fatto a sua volta qualche domanda di carattere sanitario.
Dopo queste formalità il detenuto viene collocato nel reparto detentivo insieme agli altri reclusi, previa ispezione corporale per evitare che vengano introdotti oggetti non consentiti.
La perquisizione consiste nel denudamento, e, come se non bastasse, in un piegamento finale per garantire la massima sicurezza. La cintura, i braccialetti e le collane vengono fatte togliere, perché non si possono tenere. Anche il cellulare e il portafoglio con i vari documenti di riconoscimento vengono ritirati. Così la persona perde una parte della sua identità e diventa un numero di matricola.
In accettazione viene consegnato il kit con lenzuola, federa, coperta, due piatti e posate, ovviamente senza coltello.
Se la sorte è favorevole il “nuovo giunto” viene collocato in una cella per due persone, altrimenti viene messo in un “camerone”, in cui si trovano altri 2, 3 o 4 reclusi.
I primi giorni servono ad adattarsi al nuovo stile di vita. Quando al mattino si aprono gli occhi, occorre un po’ di tempo per capire dove ci si trova. Per sopravvivere bisogna abituarsi al luogo in cui si è, modificando il modo di fare e il modo di pensare, altrimenti non si riesce ad andare avanti.
Nei primi mesi e nei primi anni di carcere, ossia nella fase processuale, il recluso è soltanto un numero fra i tanti. Non è seguito da nessuno degli operatori dell’amministrazione penitenziaria, nemmeno dagli educatori o dagli psicologi, perché soltanto i detenuti definitivi, ossia che hanno subito una condanna passata in giudicato, vengono seguiti nel percorso detentivo. Gli imputati ancora in attesa della sentenza definitiva sono dunque abbandonati e dimenticati nelle deleterie sezioni detentive.
Tutto il giorno è ozio, nello spazio ristretto della cella. Si potrebbe andare a scuola, ma molti, sperando di uscire, difficilmente sono motivati ad iscriversi. I corsi di formazione per ottenere una qualifica lavorativa vengono proposti soltanto a chi è definitivo.
Dietro a queste mura si lavora, se si è fortunati, una volta ogni 6 mesi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Però sono lavori fini a sé stessi. I lavori più validi, che si possono spendere anche fuori, vengono offerti soltanto ai definitivi. Per quanto riguarda, invece, i vari laboratori ricreativi e culturali non vi è né il desiderio di iscriversi né, a volte, la possibilità di essere inseriti.
Nella maggior parte dei casi si tratta di persone arrestate per piccoli reati (spaccio, furto, resistenza pubblica ufficiale). Vista l’accusa per delitti di lieve entità, di solito, la permanenza in carcere è di pochi mesi. Questo periodo di carcere non è certo rieducativo, anzi, molti escono più criminali di prima, perché il carcere, come spesso si dice, è l’università del crimine.
Purtroppo, infatti, anche all’interno qualcuno ruba, oppure continua a fare quello che faceva fuori, e cioè spacciare droga. Altri ancora, invece, si cimentano nella vendita di psicofarmaci, bene molto richiesto in questo contesto.
Il ritorno nel mondo libero senza un lavoro, in alcuni casi nemmeno senza una casa, ma soprattutto con il marchio del carcere addosso, rappresenta un problema più che un’opportunità. La fedina penale non è più pulita. Cosa ci si può aspettare che questi ex-galeotti facciano una volta fuori?
Il mondo oltre queste mura – mentre sono stati rinchiusi – è cambiato. Gli amici nel momento del bisogno non ci sono più, i familiari altrettanto. La rete sociale è mutata, non conoscono altro che pregiudicati, incontrati nell’ultimo periodo. La paura del carcere ormai non c’è più, ed anche il timore delle forze dell’ordine è svanito. Dopo poco tempo queste persone ritornano dietro le sbarre, avendo commesso altri reati. Non sarà né la seconda né l’ultima volta, ma l’inizio di un andirivieni da dentro a fuori e da fuori a dentro che toglie dignità alla persona.
È un circolo vizioso dimostrato in maniera molto chiara dai dati della recidiva, che in Italia è del 70%. Questo dato si abbassa significativamente, intorno al 20%, soltanto se vengono offerti strumenti veramente utili alla rieducazione, ed in particolare istruzione, lavoro, assistenza psicologia e attività culturali. Ma, come detto, si tratta di opportunità che vengono offerte prevalentemente solo a una piccola fetta della popolazione detenuta, ossia ai detenuti cosiddetti definitivi, che hanno subito condanne abbastanza alte.
Nel loro caso i primi anni detenzione trascorrono più o meno senza un perché, senza un cammino da intraprendere, bloccati nel tempo e nello spazio. Molti fortunatamente, dopo questa prima fase, decidono che è tempo di muoversi e di intraprendere un percorso rieducativo, capendo che non ci sono alternative, e che non si può far passare il tempo senza far niente tutto il giorno. La Costituzione, come sappiamo, prevede per tutti un processo di reinserimento, un cammino verso un’altra vita. Pochi ce la fanno, altri rimangono fermi nella loro condizione, senza che la pena li aiuti a trovare la strada.