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di Paola Piazzi (*)/ Nel marzo 2021 la Regione Emilia Romagna e la Camera Penale di Bologna, su proposta dall’ “Osservatorio diritti umani, carcere e altri luoghi di privazione della libertà personale”, hanno patrocinato la pubblicazione di una guida sintetica per orientarsi negli articoli dell’Ordinamento penitenziario finalizzati a ottenere misure alternative al carcere.
La giurisdizione in materia è infatti articolata in quanto prevede benefici differenziati in base al reato commesso e alle condizioni psicofisiche in cui si trova la persona detenuta (es: tossicodipendenza, stato interessante, ecc.).
Una guida in questo senso risulta certamente molto utile a chi si trova detenuto affinché possa avviare un percorso di reinserimento sociale, ma lo è anche per chi come cittadino sente parlare di queste misure (magari in relazione a fatti di cronaca) senza sapere esattamente in cosa consistano:

Una breve riflessione a premessa può quindi aiutare a meglio comprendere le finalità che stanno alla base di questi provvedimenti.
L’immagine che rappresenta e simboleggia la giustizia è dai tempi degli antichi greci una dea bendata che sorregge una bilancia, a richiamare il valore dell’imparzialità e dell’equilibrio nell’emettere la sentenza di condanna, non a caso denominata anche “pena”.
In altre parole l’ideale di giustizia viene identificato con la capacità di valutare senza condizionamenti di parte il danno recato, al fine di definire la “giusta pena” che porti sulla stessa linea invisibile i due piatti del reato commesso e della pena inflitta.
Posto quindi che una giustizia così esercitata ai comuni mortali non è concessa, in realtà viene da domandarsi se poi rappresenti davvero un ideale. Innanzitutto, perché bendare il soggetto giudicante, ovvero rendere invisibile il contesto, i condizionamenti in cui il fatto delittuoso è avvenuto?
E infatti il sistema giudiziario italiano ha introdotto il concetto di attenuanti e la “condizionale” nell’esecuzione della condanna, ovvero elementi che entrano nel gioco del riequilibrio tra i due piatti. L’obiettivo del giudice è quello di arrivare a comminare al reo una pena adeguata ovvero di intensità pari a quella generata nella vittima dal danno arrecatole attraverso un atto delittuoso.
Condanna = pena: questa equazione rimanda all’art. 27 della nostra Costituzione laddove si dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Mi domando: qualcosa che mi reca dolore (la pena) ha il potere di redimermi, di cambiarmi in meglio o piuttosto non sono alcuni accadimenti o situazioni particolari a cambiarmi, pur dentro ad una condizione di dolore?

Viene poi da domandarsi chi possieda il misuratore di pena, di afflizione o di dolore di chi ha subito un danno affinché questo venga risarcito nella giusta misura (non meno perché si tratterebbe di un’ingiustizia, non di più perché si configurerebbe come una sorta di vendetta) e se in questa “misurazione” si tenga in adeguato conto il fattore tempo per giungere alla sentenza finale e definitiva, sia nei confronti delle vittime che aspettano spesso molti anni per venire risarciti o vedere condannato l’esecutore del reato, sia nei confronti del reo che sovente viene arrestato e portato in carcere quando da anni ha avviato un percorso di revisione del suo operato ed è stato reintegrato nel tessuto sociale.

Nei miei colloqui con persone detenute spesso sento alcune di loro lamentarsi perché il Magistrato di Sorveglianza, pur trovandosi esse nei termini per ottenere dei benefici o una riduzione della pena, non concedono quanto da loro atteso. Io dico loro che se fosse sufficiente sommare tutti gli elementi numerici previsti dalla legge che concorrono all’ottenimento di un beneficio, non servirebbe un giudice, ma basterebbe un ragioniere oppure un semplice programma informatico, invece quella discrezionalità di valutazione data al Magistrato è garanzia di rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti e di tanti elementi che non sono solo di carattere numerico.

Come non pensare all’ultimo drammatico caso che ha visto una giovane donna suicidarsi in carcere. Il conoscere di questa donna il nome, Donatella, fa si che sia entrata di fatto nella nostra memoria, mentre una notizia del genere sarebbe passata del tutto inosservata come tutte le altre che riguardano suicidi quasi quotidiani in carcere, se il Magistrato di Sorveglianza che la seguiva non avesse dichiarato la sua responsabilità personale all’interno di un sistema giudiziario che di fatto non risponde in maniera adeguata al dettato costituzionale.

Anche la dottrina cattolica per molto tempo ha considerato il dolore, il sacrificio, l’afflizione come un mezzo per diventare migliori (avvicinarsi a Dio), ma papa Francesco ripete continuamente che solo la misericordia può garantire un’efficace e duratura giustizia sociale.

L’ordinamento penitenziario prevede le misure alternative alla detenzione, ovvero un’esecuzione della condanna, quindi della pena, fuori del carcere.
Queste misure vengono percepite da molti cittadini come “scorciatoie” del condannato per non pagare il suo debito con la società e nei confronti delle vittime del suo reato, uno sconto della pena ingiusto e irriguardoso del dolore altrui oltre che una minaccia per la sicurezza sociale.
La realtà dei dati rilevati (vedi sito del Ministero di Giustizia) ci dice invece che dare opportunità alternative alla detenzione in carcere garantisce a fine pena un miglior reinserimento nel contesto sociale del condannato, questo a tutto vantaggio della qualità complessiva della nostra vita in quanto si riduce la recidiva e la reiterazione dei reati.

Come afferma Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel suo libro “Misericordia: superamento del diritto o dimensione della giustizia?”:ì, “La giustizia che ingloba la misericordia non è la giustizia che rinuncia a vedere il male, ovunque esso si trovi. Piuttosto è la giustizia che rinuncia a volere il male di chi, pure, abbia compiuto del male: che non intende delegittimarsi, dunque, ponendosi sullo stesso piano del male.”

Dunque si tratta di continuare in una revisione dell’ordinamento penitenziario e del codice penale che metta al centro la persona sia essa vittima che reo, avendo come riferimento culturale e valoriale una “giustizia sbilanciata” in cui sul piatto dei “rimedi” ai mali commessi sappia mettere non tanto le pene quanto le occasioni di rinascita e di ripartenza.

(*) socia Cooperativa Sociale “Dai crocicchi”