image_pdfimage_print

«Mi chiamo Tomas e sono un essere umano, anche se spesso la gente pensa che le popolazioni Rom e Sinti siano composte da alieni». Si presenta così Tomas Fulli, educatore sociale e presidente dell’associazione MIRS- Mediatori Interculturali Rom e Sinti.
Fulli continua raccontando del suo passato da giostraio. «Quando ero piccolo cambiavo scuola ogni dieci giorni, tranne nei cinque mesi invernali in cui restavamo fermi nello stesso posto. Arrivavamo in carovana nelle diverse città e la frase che puntualmente ci accoglieva era: “sono arrivati gli zingari!”. “Zingaro” è un termine nel quale non ci riconosciamo, un marchio dispregiativo che ci hanno attribuito gli altri e con cui non ci siamo mai autodefiniti».

«Era difficile ricominciare ogni volta. Ricordo che i primi giorni in classe i bambini mi facevano sentire diverso, fuori luogo. Le considerazioni erano sempre le stesse: “attenti agli zingari perché rubano, sono sporchi, hanno i pidocchi e gli adulti rapiscono i bambini”. E a ricreazione mi lasciavano in disparte. Poi, alla festa del paese, quando mi vedevano lavorare nelle giostre, la mia identità ai loro occhi cambiava: “Tomas non è uno zingaro, è un giostraio!” iniziavano a dire. Così nei giorni seguenti la narrazione su di me si trasformava da “sporco zingaro” a “leader della scuola”. E questo perché secondo voi? Perché avevo il potere di possedere i gettoni per le giostre».

Identità e riconoscimento

Il problema dell’identità è un tratto comune delle persone che vivono in un paese ma hanno origini culturali differenti. Chi definisce il loro identikit? Esiste solo un modo in cui possano identificarsi? Chi è nato in Italia può essere considerato sia Italiano che Rom? A questa difficile ricerca si aggiunge il fatto che una definizione autentica della cultura Rom risulta veramente complessa da comprendere per i Gagé (persone non appartenenti al popolo Romanì), non solo perché la conoscenza di questa cultura è molto ridotta, ma anche perché queste popolazioni nel nostro paese non sono riconosciute a livello legale.

È difficile riconoscere un popolo a cui non viene automaticamente associato un territorio fisico? Siamo Italiani perché viviamo in Italia, ne definiamo i confini, li riconosciamo visivamente e possiamo dentro di essi raggruppare una serie di tradizioni, musiche e dialetti che definiscono una cultura. Le popolazioni Rom e Sinti sono invece una minoranza, una percentuale bassissima della popolazione italiana (circa 160-180 mila su 60 milioni di italiani) a cui non viene associato un territorio geografico comune. Per lo stato italiano i Romanì sono un popolo invisibile, senza terra, che rivendica di essere riconosciuto.

Dalla diaspora alla “Grande Morte”

La loro storia nasce dall’India, da dove è partita una diaspora di più di mille anni: via terra passando per l’est Europa fino al Nord e via mare verso il Nord Africa e la Spagna. Il primo passo verso l’affermazione identitaria è avvenuto nel 1971, durante un convegno tenuto in Inghilterra in cui vennero istituite la parola “Romanì” e la bandiera che li rappresenta a livello globale: una banda orizzontale blu e una verde che simboleggiano la terra e il mare e una ruota rossa al centro che rappresenta la carovana. Questo primo atto di riconoscimento non servì però a salvarli dalle persecuzioni etniche a cui sono sopravvissuti nel corso dei secoli; in particolare Tomas ci ricorda del Porrajmos, il genocidio di circa 800 mila rom e sinti avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale. Una parte talmente dolorosa della storia umana che gli anziani Romanì ricordano come “La Grande Morte”, ma che è stata rimossa dalla memoria collettiva.

La comunità Rom di Bologna

Molti aspetti della realtà dei popoli Rom sono stati purtroppo censurati nel corso della storia. Per esempio alcuni documenti attestano che il primo insediamento in Italia avvenne proprio a Bologna, nel Parco della Montagnola, nel 1522. Attualmente a Bologna risiedono 3700 persone che vivono nei campi nomadi, costretti dal governo in queste zone di emarginazione dagli anni ‘80. I campi riconosciuti, e poco attrezzati, si trovano a Borgo Panigale, nel quartiere Savena, a ridosso di San Lazzaro e in via Erbosa. Inoltre, esistono molte persone che vivono in campi non riconosciuti, ma risulta difficile farne una stima a causa degli sgomberi e della conseguente dispersione.

“Case viaggianti”: spalancare la finestra sul mondo

Nonostante sia talvolta disagevole abitare in questi campi fatiscenti, per molti risulta ancor più complicato abbandonare la vita della roulotte e trasferirsi in una casa chiusa da pareti di cemento. «Mio padre in passato è andato a visitare un appartamento che si trovava al quarto piano e quando l’ha raggiunto ha avuto le vertigini. Comoda o non comoda che fosse, la roulotte era la sua vita, era abituato ad aprire la porta di casa ed essere subito affacciato sulla strada, sul mondo. È come sentirsi letteralmente un pesce fuori dall’acqua: puoi metterlo anche in una villa ricoperta d’oro, ma per vivere ha bisogno d’acqua, anche se si tratta di una piccola bacinella».

Combattere i pregiudizi con l’educazione

Per combattere le forme di pregiudizio, discriminazione e violenza bisogna partire dall’informazione e dall’educazione. Tomas ha iniziato la sua attività di divulgazione a 20 anni, facendo interviste e partecipando a tavoli regionali, per poi organizzare laboratori nelle scuole e all’università e proporre feste con musica, danze e cibi zigani aperte a tutta la popolazione. «La colpa dell’ignoranza non è né dei bambini né degli adulti» dice «ma di chi non ci permette di entrare nelle scuole per farci conoscere. Io voglio fare di più anche a livello universale, non solo per il mio popolo ma per tutte le etnie discriminate». Se “l’istruzione è l’arma più potente che puoi utilizzare per cambiare il mondo”, come diceva Nelson Mandela, allora Tomas è sicuramente un’importante goccia nell’oceano del cambiamento.

Eleonora Azzarello

Leggi gli altri articoli >>