image_pdfimage_print

E’ uscito il numero di aprile di Piazza Grande, il giornale che diffonde i temi dell’esclusione sociale dal punto di vista degli esclusi. Si possono trovare le copie in alcuni punti fissi oppure in strada distribuito dalla redazione stessa. E’ possibile sostenere il giornale acquistando una copia oppure abbonandosi. Per maggiori informazioni e per abbonarsi >>

Pubblichiamo qui un articolo dell’ultimo numero.

Carta metropolitana per la logistica etica
Intervista a Federico Martelloni: i punti di forza e di debolezza della nuova intesa

di Francesca Inglese e Laura Esposito

In seguito alla recente pubblicazione della “Carta metropolitana per la logistica etica”, frutto di un coordinamento tra diversi enti e soggetti pubblici e privati, abbiamo intervistato nuovamente Federico Martelloni, professore associato di Diritto del lavoro all’Università di Bologna, cercando di approfondire il contenuto del documento e di individuarne benefici e criticità.

Lo scorso 27 gennaio è stata presentata la “Carta metropolitana per la logistica etica” da parte della Città metropolitana e del Comune di Bologna. Dopo averla letta, ritiene che sia un documento sufficientemente valido, preciso e approfondito, adeguato per far fronte agli obiettivi posti?

A me pare che le premesse della Carta siano corrette nella misura in cui prende atto dell’insufficienza del quadro normativo rispetto alle esigenze e agli obiettivi che si propone. La legislazione odierna, con particolare riferimento a due aspetti, cioè la mancata efficacia erga omnes dei contratti collettivi nel nostro ordinamento e il mancato principio della parità di trattamento tra dipendenti dell’appaltante e dipendenti dell’appaltatore, offrono un quadro normativo inidoneo a garantire condizioni di lavoro
dignitose, eque e giuste, in generale e in particolare in un settore ad alta densità di lavoro, di appalti e subappalti, di problematiche legate ai rischi per la salute e la sicurezza degli operatori. Quindi, la premessa a me pare convincente.

A questa premessa fanno seguito una serie di impegni che non sempre risultano vincolanti. Sono molto convincenti gli impegni delle istituzioni e degli enti pubblici e parapubblici, a partire dall’Ispettorato del Lavoro, a un coordinamento che è sempre stato uno dei problemi rispetto allo svolgimento degli incarichi istituzionali che pure enti, soggetti, pubblici ufficiali hanno in questo e in altri settori; ma non sempre gli impegni a promuovere, gli inviti, le prescrizioni, rappresentano dei veri e propri obblighi giuridici.

Detto altrimenti, non è ben chiaro cosa accada ogni qualvolta le parti non diano seguito ai propositi, agli intendimenti che mostrano di condividere sottoscrivendo la carta. C’è un secondo problema legato al fatto che giustamente in premessa si assume come base inequivocabile, da parte di tutte le imprese che operano in questo settore, il rispetto dei vincoli legali, ma a più riprese si iscrivono ai contenuti della Carta anche elementi che
hanno a che fare con il rispetto degli obblighi di legge. Questo emerge con particolare evidenza nella parte relativa alla tutela della salute e della sicurezza. Se in quell’ambito esistono propositi e intendimenti con particolare riguardo al tema della formazione che possono anche trascendere gli obblighi di legge, molte altre previsioni invece riproducono ciò che è contenuto nel Testo Unico del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza, e quindi la Carta talvolta accavalla aspetti che travalicano obblighi legali ad aspetti che si limitano a riprodurli.

Da questo punto di vista, il suo valore può essere derubricato perché tutti devono rispettare gli obblighi di legge, che si impegnino o meno a farlo sottoscrivendo una carta. Mentre è sensato, a mio giudizio – come
sembrano immaginare gli stessi estensori della Carta – che la Carta serva ad andare al di là degli obblighi di legge, a prevedere elementi ulteriori, tanto che sottoscriverla dà luogo a una sorta di certificazione etica che può anche essere vissuta dagli operatori come un fattore competitivo, sia rispetto all’appeal che hanno nei confronti delle istituzioni pubbliche, sia rispetto all’appeal che hanno nei confronti di consumatori pilota o consumatori etici.

La Carta si pone come “cornice di riferimento di principi condivisi da promuovere”. Secondo lei, in che modo il documento può dialogare e integrarsi con le lotte dei sindacati di base attivi a Interporto? Ritiene che gli obiettivi perseguiti da essi trovino riscontro e legittimazione all’interno della Carta?

Dipende. Credo si possa rispondere a questa domanda in un duplice modo, seguendo due direttrici. La prima: la Carta risponde anche agli obiettivi delle lotte dei sindacati di base nella misura in cui è tesa ad assicurare condizioni di lavoro sicure, inclusive ed eque. Quindi non è da escludere che gli obiettivi della Carta possano essere condivisi da tanti e, anzi, possano essere frutto di mobilitazioni di base anche estranee agli estensori
e ai sottoscrittori. Al tempo stesso la Carta mostra con una certa evidenza che protagonisti sono le istituzioni pubbliche, le associazioni rappresentative dei datori di lavoro e i sindacati confederali. Perché quando vi è un riferimento ai contratti collettivi, il riferimento è ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative e quindi, tendenzialmente, nel settore della logistica, la triplice CGIL, CISL e UIL.

Si badi: a me pare opportuna questa precisazione, perché nel settore della logistica, come in altri settori, non è infrequente il fenomeno della cosiddetta contrattazione pirata. Quindi il tema non è tanto difendere la contrattazione collettiva di CGIL, CISL e UIL, ma evitare che gli standard di trattamento riconosciuti ai lavoratori impegnati nel settore della logistica siano inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi stipulati dai sindacati
comparativamente più rappresentativi.

A questo bisogna aggiungere una seconda precisazione: la Carta prevede l’impegno a promuovere anche la contrattazione di secondo livello. Il fatto che vi sia un impegno a promuovere la contrattazione di secondo livello, ove preveda condizioni migliorative e non certo derogatorie rispetto alla contrattazione nazionale, può anche coinvolgere – almeno in ipotesi – sindacati, contratti collettivi di sito o aziendali stipulati da sindacati di base,
come è accaduto nella logistica, perché non è estraneo a questo settore, in ambiti dove vi sono sindacati di base forti o fortissimi, che qualche intesa o qualche accordo lo si sia strappato.

L’adesione alla Carta, da parte delle imprese già insediate sul territorio e delle nuove, non sembra essere un requisito obbligatorio per lo svolgimento della loro attività economico- produttiva. Come immagina si esplicherà concretamente, quindi, il suo valore dal punto di vista della disincentivazione dello sfruttamento lavorativo e del sistema degli appalti al ribasso?

Se le imprese firmatarie della Carta dessero corso agli impegni assunti e se la volontà di promuovere gli standard di trattamento che sono previsti fosse effettiva (e da questo punto di vista mi sembra estremamente utile che sia istituito un meccanismo di monitoraggio sugli effetti della Carta), la Carta potrebbe determinare una bussola di selezione dei partner commerciali. Vuol dire che se devo scegliere tra un partner commerciale che applica la contrattazione di primo e secondo livello e che applica la contrattazione di secondo livello non quando sia derogatoria ma solo quando sia migliorativa degli standard assicurati da un contratto nazionale concluso dai sindacati più rappresentativi, a quel punto potrei evitare il meccanismo del dumping contrattuale tipico delle catene di appalto e subappalto, perché finirei per escludere imprese che assicurano commesse più economiche o al ribasso, scaricando il minor prezzo sulle spalle di lavoratori malpagati in ragione della disapplicazione di contratti collettivi, dell’applicazione di contratti pirata, della non applicazione della contrattazione di secondo livello, o della non applicazione di alcun contratto collettivo (cosa che è assolutamente legittima nel nostro ordinamento giuridico). Quindi è uno strumento teso a
conformare le condotte degli attori economici.

Certo, si tratta di una normativa pattizia di tipo soft. Cioè, da un lato non si parla di norme di diritto positivo, ma di impegni negoziali; dall’altra si parla di impegni che non sempre suonano come vincolanti, come obblighi contrattuali o che un terzo beneficiario potrebbe far valere dinanzi a un giudice, portando in tribunale un sottoscrittore che si sia sottratto all’impegno. Perché, ripeto, molti di questi impegni pur condivisibili si limitano a essere dei propositi, degli intendimenti, delle volontà di promuovere alcune cose.

Con questo non voglio dire che non si tratti di un buon punto di partenza. L’idea che si scelga di andare oltre gli obblighi legali, si introducano degli obiettivi e un sistema di monitoraggio, a me personalmente dà l’idea di un lavoro “work in progress” che può essere affinato con impegni che possono, nel corso del tempo, dettagliarsi, specificarsi anche a fronte di eventuali verifiche della loro inconsistenza, della loro effettività. Quindi a me pare che sia senz’altro un passo in avanti. Dopodiché, dubito che si tratti dell’ultimo passo perché penso che continueranno a verificarsi alcuni episodi che morbosamente si incistano in tanti settori e in particolare in questo, perché è vero che la Carta non è un meccanismo di esclusione.

“Logistica etica” sarà il logo che le imprese qualificate potranno utilizzare rispettando gli standard di sicurezza, qualità del lavoro e sostenibilità esplicati nella Carta. Anche al di là di Interporto, quanto è alto il rischio che l’adesione a valori eticamente e socialmente positivi rimanga qualcosa di puramente strumentale, di finalizzato a un maggior prestigio sul mercato, anziché essere un’effettiva e sostanziale convinzione e quindi inversione culturale, socialmente radicata?

Io penso che il capitalismo sia “brutto e cattivo”. E penso che una Carta etica della logistica non è affatto scandaloso che sia considerata dagli imprenditori come un fattore competitivo. Penso che non sia deprecabile che le imprese che scelgono di sottoscriverla la vivano non come un’intima convinzione culturale, ma come un vantaggio competitivo. Dirò di più, penso che questo sia sano. La cosa preziosa è che non sia puramente formale, che sia effettivo. La cosa che interessa è che abbiano la certificazione coloro che si fanno carico di integrare gli obblighi di legge con gli obblighi pattizi che gli consentono di ottenere la certificazione etica.

Non interessa che gli imprenditori della logistica siano buoni e che credano di fare il bene dei lavoratori e delle lavoratrici. Interessa che non si limitino a sottoscrivere la Carta per un vantaggio competitivo disattendendo le indicazioni che sono previste, quindi interessa la sua effettività. Una volta che la Carta è effettiva, l’inversione di rotta o il cambiamento culturale è in re ipsa a prescindere da quello che pensa nell’animo suo l’imprenditore
della logistica. L’hummus culturale, il sentiment, le abitudini, le prassi, le culture, sono sempre processi di medio-lunga durata. Il punto è capire se regole di diritto positivo o di diritto pattizio, o anche regole assunte volontariamente in via unilaterale, nel tempo conformino le condotte degli attori o meno. Se iniziano a conformare le condotte degli attori accade che si modifichi anche la cultura che permea un settore, un territorio.

Quindi a me sembra che la Carta rappresenti un buon punto di partenza, cioè non penso che sia una cosa superflua o un tentativo di washing di un settore maledetto. Per capire che cosa dal punto di vista culturale in questo territorio e in quell’ambito si svilupperà a ridosso o dopo la Carta, bisogna
capire come procede il monitoraggio. Non credo che un giorno un’impresa si svegli, sottoscriva la Carta e questo sia indice di un mutamento di prospettiva, di un capovolgimento etico. Quello che possono fare una Città metropolitana e un Comune è mettere in campo la loro “moral suasion” istituzionale, i vantaggi competitivi che può assegnare un ente territoriale sulla base di intese pattizie. Perché né la Città metropolitana né il Comune hanno competenze normative in materia di qualità del lavoro.

Quello che possono fare è una Carta come quella della logistica, che può essere più o meno rigida, più o meno vincolante, più o meno effettiva, monitorata con più o meno rigore. Questo è anche un modo di segnare un passaggio, o di indicare una via per la trasformazione della sensibilità. Certo che domani, dopo la sottoscrizione della Carta, ci sarà o dovrebbe esserci una maggiore attenzione da parte delle istituzioni pubbliche a quello che accade in Interporto. Se venisse fuori un’impresa della logistica che viola apertamente le normative in materia della tutela della salute e sicurezza, che non applica neanche i minimi tabellari dei contratti collettivi, che si rifiuta di applicare la contrattazione di secondo livello, che esclude ogni percorso formativo, ci sarebbe un livello di attenzione da parte dei soggetti deputati al controllo che dal punto di vista culturale potrebbe essere utile a solleticare la sensibilità di attori economici e consumatori.