di Alex Frongia /Per la prima volta dopo la sentenza della Consulta, si parla concretamente di diritto all’affettività. E per farlo ci vuole il caso mediatico: un detenuto della Dozza, la C.C. di Bologna dove sono ristretto, concepisce assieme alla sua compagna un bambino. Ecco il racconto dei due (Luca ed Helena): “Sfruttammo il tempo della scarsa attenzione dei sorveglianti per sentirci a nostro agio fino ad arrivare a dimenticarci del luogo nel quale ci trovavamo”. A me sarebbe piaciuto qualcosa di più romantico, ma sono gusti personali.
In questo racconto ci sono tre donne che giocano un ruolo fondamentale: la compagna del detenuto (Helena), il Magistrato di Sorveglianza, Simona Manna e la direttrice dell’istituto, Rosa Alba Casella. Dopo i fatti, e dopo 9 mesi, Luca chiede un permesso per gravi motivi familiari (c.d. GMF), per poter assistere al parto della compagna e stare vicino alla stessa, già madre della loro bambina, avuta quando Luca era in libertà. Qui subentra il ruolo della seconda donna, il Magistrato che senza il minimo scrupolo e senza alcuna briciola di solidarietà femminile motiva il rigetto scrivendo che il bambino, che porta in grembo Helena, non può essere figlio di Luca. La terza donna coinvolta, la dott.ssa Casella, è quella che crede a questa tesi.
Infatti, anche davanti alle telecamere della trasmissione “Le Iene” di Italia 1, risponde al giornalista asserendo che lei non aveva la prova del fatto che il nascituro fosse figlio di Luca, violando la dignità della famiglia di Luca e della compagna stessa, per giunta di fronte a mezza Italia e al Sottosegretario di Stato del Ministero della Giustizia Andrea Ostellari. Nonostante tutte queste maldicenze, la famiglia di Luca si sottopone al test del DNA tra il nuovo nato, il piccolo Achille, e la sorellina Aurora. Io di sicuro non attendo con ansia il risultato di questo abuso, perché nessuno in Italia presenta il DNA all’anagrafe per riconoscere suo figlio.
Vorrei che questa vicenda portasse una svolta positiva per noi detenuti; vorrei che le coscienze istituzionali, il DAP in primis, si svegliassero e attuassero ciò che la sentenza della Consulta ha legittimato oramai oltre un anno fa. Il piccolo Achille non è solo figlio di Luca ed Helena, ma è figlio anche di tutti noi detenuti e degli ex detenuti che per via della pena non hanno potuto avere figli. È figlio anche di tutte le donne detenute che non potranno mai sentirsi chiamare mamma, poiché l’orologio biologico scorre più in fretta di quello della loro pena. Achille è figlio di tutte quelle relazioni che sono finite, che con quell’ora a settimana non sono riuscite a reggere l’onda d’urto dello tsunami della distanza e dell’alienazione che causa il carcere. Il nome del bambino, Achille, non è stato scelto a caso. Achille, uomo mitologico fortissimo, possente ma con un punto debole, il suo tallone. Ecco, anche l’uomo più forte ha una debolezza: il bisogno d’amore. Ed anche in carcere c’è bisogno d’amore.