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di Filippo Milazzo / Il dramma dei suicidi in carcere in Italia è un campanello d’allarme che non può più essere ignorato. È tempo di intraprendere un percorso di riforme coraggiose che pongano al centro il rispetto dei diritti umani e la dignità della persona. Solo così si potrà sperare di chiudere questo capitolo buio e aprire le porte a un futuro in cui la giustizia non sia sinonimo di disperazione, ma di vero riscatto sociale. La strada è complessa e richiede un impegno congiunto da parte delle istituzioni, della società civile e di ogni singolo cittadino, ma è l’unico percorso possibile per garantire che la giustizia e l’umanità camminino mano nella mano, verso un sistema carcerario che curi piuttosto che ferire, che educhi invece di reprimere, che reinserisca piuttosto che isolare.

Nel macrocosmo degli eventi suicidiari in carcere il fenomeno del suicidio femminile rappresenta una delle pagine più tragiche e meno discusse del sistema penitenziario. Nonostante le donne detenute costituiscano una minoranza della popolazione carceraria, i casi di suicidio tra queste pongono in luce specificità e bisogni spesso ignorati dalle strutture e dalle politiche di detenzione.

Alla Dozza di Bologna era da molto tempo che non si avevano notizie di suicidi nel reparto femminile, mentre in quello maschile ce ne sono stati diversi accompagnati anche da atti di autolesionismo. Nella settimana tra il 19 e il 22 di marzo, mentre l’Amministrazione Penitenziaria celebrava la settimana della giustizia riparativa nella sala cinema, si sono avuti al femminile ben due decessi. Il primo, di cui si è parlato molto poco, ha riguardato una ragazza di 21 anni: il decesso, avvenuto durante la notte, è stato attribuito a cause naturali in quanto la detenuta aveva pregressi problemi di salute.
Il secondo, invece, ha destato più scalpore sia perché si è trattato dell’ennesimo suicidio nelle carceri italiane sia perché è avvenuto nella concomitante presenza nel carcere di Bologna del Cardinale Zuppi e di numerosi ospiti invitati a parlare di giustizia riparativa.

La donna ha aspettato che le altre detenute andassero all’ora d’aria o alle attività trattamentali per mettere in atto la sua intenzione, che si presuppone si sia concretizzata con l’inalazione del gas del fornellino in uso nelle celle per cucinare. Nonostante l’intervento tempestivo delle agenti, la donna è spirata tra le loro braccia senza che ci fosse il tempo per l’intervento dei sanitari allertati per telefono. Il reparto femminile è infatti posto in un fabbricato distaccato, e i tempi di intervento non sono celerissimi. Pare che la donna prima di morire abbia lasciato una lettera spiegando i motivi del grave gesto. Questo fatto ha creato all’interno del reparto femminile dell’Istituto un clima di tristezza e di amarezza e le detenute, che la conoscevano bene, non si riuscivano a spiegare i motivi del gesto chiedendosi perché si possa arrivare a togliersi la vita. Alcune, le più fragili ed emotivamente più coinvolte, hanno avuto un crollo psicologico tale da richiedere un supporto medico: le indicazioni del personale della polizia penitenziaria ad alcune detenute sono state quelle di vigilare con attenzione le compagne più fragili al fine di evitare un effetto imitazione.

La cella è stata chiusa ed è stata meta continua di detenute che sono andate a rivolgere una preghiera per quella povera donna. Anche il Cardinale Zuppi, nella Messa di Pasqua, ha invitato i partecipanti a stringersi in preghiera nel ricordo di quell’angelo volato in cielo.
Ma la catena purtroppo non si è fermata e dopo una settimana si è verificato un altro tentativo di suicidio sempre nel reparto femminile, evitato solo grazie al pronto intervento degli assistenti di polizia penitenziaria impegnati nella sorveglianza della sezione. E allora mi chiedo perché. Certo una prima risposta per la sezione femminile è che le donne in carcere affrontano sfide uniche, amplificate da un sistema principalmente progettato per detenuti maschi. Queste differenze si estendono a vari aspetti della vita in detenzione, inclusi l’accesso alle cure mediche, la protezione da abusi fisici e sessuali, e il sostegno per problemi di salute mentale. Inoltre, molte detenute hanno storie personali segnate da violenza domestica, abuso di sostanze e povertà, fattori che possono aumentare il rischio di comportamenti suicidari.

La questione dei suicidi femminili in carcere chiama in causa la responsabilità che la società ha di proteggere i diritti e la dignità di tutte le persone, indipendentemente dalla loro condizione giuridica. Lavorare per prevenire questi tragici eventi significa non solo offrire sostegno adeguato all’interno delle strutture di detenzione ma anche promuovere politiche sociali e di giustizia che prevengano l’incarcerazione inutile e che supportino efficacemente il reinserimento. Un’altra risposta, che riguarda la popolazione carceraria nel suo complesso, è che questo fenomeno doloroso dovrebbe sollevare questioni urgenti sui diritti umani, sulla qualità del sistema carcerario italiano e sulla necessità di riforme profonde per prevenire ulteriori perdite di vite. Questi atti estremi sono spesso il risultato di una complessa interazione di fattori, che vanno dalla disperazione individuale alle condizioni di vita all’interno delle istituzioni detentive.

Il sovraffollamento, la scarsa assistenza medica e psicologica, la violenza, l’isolamento e la difficoltà di accesso ai programmi di riabilitazione contribuiscono a creare un ambiente in cui la speranza sembra un lontano miraggio. Dietro ogni statistica si celano storie personali di sofferenza e disperazione. Molti detenuti vivono in condizioni che poco si addicono a un sistema di giustizia civile, dove la punizione sembra superare l’obiettivo di rieducazione e reinserimento sociale. La mancanza di dialogo e ascolto da parte delle istituzioni amplifica il senso di abbandono e isolamento che molti detenuti provano, portandoli a vedere nel suicidio l’unica via di fuga dal loro dolore.

L’unica certezza che ho è che il problema dei suicidi in carcere richiede una risposta immediata e strutturata. In tal senso occorre sollecitare una riflessione più ampia sul sistema penale, incentrata sul rafforzamento delle alternative al carcere per i reati minori, sull’investimento in programmi di reinserimento sociale e sulla formazione del personale carcerario, in modo da promuovere un approccio più umano e costruttivo. In conclusione siamo di fronte ad un problema complesso che richiede un’attenzione particolare e azioni mirate. Solo attraverso un impegno collettivo per una giustizia più equa, inclusiva e sensibile è possibile sperare di ridurre e, idealmente, eliminare questo dramma.