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Sono Giovanni, detenuto alla Dozza da 8 mesi per reati di 25 e 16 anni fa. In questi mesi ho vissuto la realtà dell’istituto constatando diversi problemi, molti dei quali sono certamente comuni a tutto il sistema carcerario italiano.
Il primo che ritengo importante segnalare è quello della sanità e della salute delle persone detenute. La vera emergenza in questo ambito è quella dei suicidi. Anche qui alla Dozza di recente si è verificato un altro caso, il settimo da inizio anno in Emilia Romagna; per diversi aspetti la situazione appare fuori controllo perché il sistema non è in grado di tutelare la vita dei reclusi, soprattutto di quelli affetti da patologie mentali o da dipendenze.

Il Ser.D. è presente in istituto ma non è in grado di programmare interventi terapeutici e riabilitativi individualizzati, che richiederebbero un’organizzazione specifica in aree detentive dedicate o in comunità specializzate nella cura di queste patologie. L’unico rimedio è il metadone; lo so per certo perché il mio compagno di cella lo prende da mesi e posso testimoniare quanto sia difficile vivere il carcere in condizione di dipendenza, con il cervello concentrato solo sulla ricerca delle sostanze senza essere impegnato in attività costruttive. Si tratta solo di far passare il tempo, senza alcuna possibilità di cambiare e con un altissimo rischio di ricadere, una volta usciti, negli stessi reati che hanno condotto in carcere.

Durante la detenzione chi ha questo genere di problemi spesso fa sfociare la sofferenza in atti autolesionistici o in comportamenti molto aggressivi, rendendo veramente difficile la convivenza in cella, perché non è facile affrontare senza competenza questo tipo di situazioni. Spesso si tratta di persone che non hanno avvocati o familiari che li seguano; e per molti anche il metadone non viene somministrato perché “deve stare qua un anno, mica può prenderlo per un anno”.
Si manifestano così le crisi di astinenza e la disperata ricerca della droga, che, si sa, circola anche in carcere a costi molto elevati, perché purtroppo il controllo dell’afflusso della droga negli istituti di pena è un vero e proprio business.

Un altro problema di cui da molto tempo si parla e che vivo sulla mia pelle è quello dei programmi di trattamento e delle opportunità che vengono offerte per un concreto percorso di reinserimento. Credo che la mia storia sia emblematica in tal senso. Da ottobre 2015 a marzo 2017 sono stato in affidamento, e nel luglio 2018 la mia pena detentiva è stata estinta perché “il comportamento dell’affidato – era stato – complessivamente corretto, rispettoso delle prescrizioni e aderente al percorso riabilitativo”. Da quando ho finito di scontare quella pena ad oggi non ho più commesso reati. I fatti per cui mi trovo detenuto ora risalgono a 25 e 16 anni fa, quindi mi chiedo: ma quale è il mio percorso? Cosa mi è richiesto? La valutazione del detenuto viene basata sia sul suo vissuto, sulla sua storia, sull’ambiente di provenienza, sia sull’osservazione degli interessi e delle attitudini nel presente, per la definizione di un programma rieducativo o, meglio, di risocializzazione. Sono qui da 8 mesi, ma nessuno mi ha cercato. In tutto questo tempo non è successo nulla, se non che cresce sempre più la sensazione di fallimento e di inutilità.