image_pdfimage_print

di Emme.I/Il lavoro è considerato uno degli strumenti della rieducazione del detenuto, infatti, proprio per questo, chi si trova recluso svolge durante la detenzione brevi periodi di attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria.
Tuttavia si può osservare che questo tipo di attività non riesce nel suo intento di rieducazione e risocializzazione del recluso, dal momento che una volta scontata la condanna il detenuto si trova in un contesto che non gli consente di reinserirsi concretamente attraverso un’occupazione che gli permetta di vivere in maniera legale. Come un pesce fuor d’acqua, non riesce a trovare un lavoro ritorna a fare l’unica cosa che sa fare, ossia delinquere.

Questa è una delle cause principali per cui la recidiva, ossia la percentuale di detenuti che, una volta usciti dal carcere, ritornano di nuovo a delinquere è del 70%. E’ un tasso molto elevato per un paese come l’Italia, che può incidere sulla qualità della vita del nostro Bel Paese rendendo meno sicuro il tessuto sociale.
Tutto ciò è sintomo di un sistema rieducativo che non riesce a raggiungere l’obiettivo del reinserimento nella società del condannato. Eppure ci sono alcuni casi in cui la recidiva scende sotto la media nazionale fino all’1%. Ciò avviene grazie al fatto che una volta finito di espiare la pena alcuni detenuti hanno un lavoro garantito da imprese private e cooperative sociali che operano all’interno degli istituti penitenziari, ma purtroppo queste realtà sono limitate.

Nel 2019 l’associazione Antigone ha constatato che i detenuti che lavorano alle dipendenze dei soggetti privati sono soltanto l’1,8% dei presenti. Anche nella Casa Circondariale di Bologna sono presenti 3 imprese esterne: una cooperativa che gestisce un laboratorio di sartoria, una lavanderia e infine un’azienda metalmeccanica (FID).
Quest’ultima è stata costituita 10 anni fa da alcune società fra le più importanti del territorio che operano nel settore della metalmeccanica: GD, Ima, Marchersini group, a cui si è aggiunta da qualche anno anche la FAAC. Queste aziende, concorrenti tra di loro nel mondo del mercato, si sono associate per avviare un progetto sociale rivolto alle persone private della libertà personale, con l’obiettivo di insegnare una professione ai reclusi attraverso un iniziale corso di formazione e successivamente un’esperienza nell’officina realizzata all’interno dell’Istituto per un periodo più o meno lungo, nel quale i detenuti imparano il mestiere sula campo.

Una volta scontata la pena o anche durante la detenzione attraverso misure alternative (art. 21 esterno, semi-libertà, affidamento ai servizi sociali) i detenuti coinvolti vengono poi inseriti nelle unità produttive dei soci fondatori presenti nel territorio bolognese.
Questo modello si potrebbe rivelare vincente per il sistema giudiziario e per la comunità civile, in quanto abbatterebbe la recidiva e, conseguentemente, i reati. In secondo luogo si creerebbe più sicurezza per la società e meno tasse da pagare per i cittadini italiani che concorrono ad alimentare il funzionamento dell’amministrazione penitenziaria.

Anche le imprese che assumono internati non ne escono perdenti perché, grazie alla legge Smuraglia, ottengono sgravi fiscali e contributivi. Lo Stato dovrebbe però incentivare ancor di più le ditte private a decentrare il lavoro all’interno delle prigioni, perché soltanto così si può dare una funzione rieducativa alla pena, secondo quanto afferma la Carta Costituzionale all’art. 27.
Tutto ciò è solo a vantaggio della società e nessun altro ci perderebbe, a parte la criminalità organizzata e chi ha interesse ad indurre le persone a scelte delinquenziali.