di Piombo / Lo zombie-ismo in carcere, ovvero la realtà dei walking dead men. In carcere ce ne sono tanti, per tante ragioni. C’è chi si comporta così, come un essere stralunato in uno stato psicofisico decadente, per una chiara espressione di disagio nei confronti della vita detentiva; tutto è vissuto con passività, ricorrendo unicamente a farmaci che consentano di dormire il più possibile e di evitare ogni forma di interazione con il contesto della sezione. Tutto è circoscritto alla cella, senza nessun contatto sociale.
Ma gli zombie sono anche i tanti che si sono trovati reclusi a causa della tossicodipendenza, che in carcere viene trattata con terapie invasive e pesanti, che provocano assuefazione e la necessità di dosaggi sempre maggiori. Lo stato di alterazione diventa spesso esasperazione, e può portare ad atti autolesionistici o aggressivi verso il personale di sorveglianza o verso gli operatori sanitari. Qualcuno non attende altro che lo sballo, sfruttando la facilità di ottenere sovra dosaggi o cambi di terapia, e continuando a sfamare la dipendenza anche barattando le terapie altrui con sigarette o altri favori.
Ma ciò che principalmente pesa sulla salute psicofisica delle persone recluse è, a mio parere, lo stato di abbandono in cui molti trascorrono la detenzione. A parte i pochi che hanno un’opportunità lavorativa, i più non hanno obiettivi per cui lottare, non ricevono proposte rieducative e non vedono uno sbocco di reinserimento nella società. È risaputo che il sistema carcerario è fallimentare, non suscita consapevolezza e rieducazione, ma per lo più solo abbandono.
Rimane comunque sempre la speranza di guarire dallo zombie-ismo, di potersi scrollare di dosso questa apatia, e di tornare ad alzare lo sguardo verso le stelle, per seguire, anche noi, i sogni e gli obiettivi che fanno sentire vivi e non morti che camminano senza una meta.