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di Giulio Lolli / Una delle prime cose che ho imparato durante la mia esperienza all’interno della realtà carceraria, è quella che tutto ciò che esiste nel mondo di fuori, viene esasperato e inasprito nel mondo di dentro. A questa regola non sfuggono anche i massimi sistemi come l’economia e la finanza, le quali non solo regolano, di fatto, il sistema carcere, ma sono state anche la principale causa della nascita del carcere moderno.
Scrive Giorgio Pieri in “Carcere, l’alternativa è possibile”, che prima della rivoluzione industriale e la conseguente nascita del capitalismo, in carcere non ci si finiva per espiare una pena, ma in attesa della pena, che era o capitale o nei casi più lievi pecuniaria, passando attraverso punizioni corporali e umiliazioni pubbliche più o meno grottesche. Trattamenti assolutamente inaccettabili, quanto però lo è l’idea di ammassare i detenuti a consumare il loro tempo a non far niente, soprattutto se questa idea viene concretizzata non per umanizzare la pena, ma per proteggere il mondo della classe economica dominante.

La rivoluzione industriale ha creato infatti un’enorme quantità di nuovi poveri che si sono ammassati al interno delle città, per lo più ex lavoratori espulsi per vari motivi dal nuovo sistema produttivo, spesso per gli innumerevoli incidenti, con i familiari ridotti alla fame; le città hanno visto le proprie periferie popolarsi di una massa di scarti umani che finivano inesorabilmente per delinquere, spesso in maniera feroce, terrorizzando la nuova classe economica dominante, la borghesia, la quale ha trovato come soluzione alle proprie paure, il rinchiudere il più a lungo possibile coloro che minacciavano il benessere economico. A questo poco edificante fine ultimo, le teorie sulle finalità del carcere hanno introdotto il concetto di rieducazione dei detenuti, auspicando il miglioramento trattamentale rispetto alle punizioni corporali, giusto per accontentare quella minoranza di intellettuali, sociologi e politici illuminati, che avevano e hanno intuito l’intrinseca ferocia della detenzione temporale.
Dopo tre secoli non è cambiato nulla. L’ideologia del nascondere lo sporco sociale sotto il tappeto e di terrorizzare i bravi cittadini con allarmanti emergenze criminali, a cui seguono nuove leggi e copiosi arresti (che non cambiano nulla se non il livello di sovraffollamento carcerario}, ha raggiunto livelli non degni di una società moderna ed evoluta; fermo restando che la povertà non può costituire un alibi per delinquere, la nuova massa di poveri, immigrati, disoccupati, ragazze madri, persone inoccupabili, trova oggi nello spaccio, nella criminalità e nella violenza una facile via per accedere alla società dei consumi, che ormai non ti giudica neanche più per quello che hai, ma per quello che puoi comprare. E nel momento in cui si passa dal mondo di fuori al mondo di dentro, sono ancora I ‘economia e la finanza a stabilire quanto e come si deve restare in carcere. Sebbene esistono eccellenti avvocati a gratuito patrocinio, la povertà economica e culturale impedisce a migliaia di individui non solo di accedere ad un giusto processo, ma anche di affrontare una dignitosa detenzione.
Infatti, avere una disponibilità economica in carcere, permette al detenuto di comprare e cucinarsi cibo decente, di avere una colazione, un caffè accettabile, qualcosa da fumare, shampoo, dentifricio, sapone e un giornale da leggere, tutte cose che l‘amministrazione, che deve fare i conti con le poche risorse a disposizione ma soprattutto con l’errata distribuzione dei fondi, non offre. Senza soldi, in carcere non si può nemmeno usufruire delle telefonate per l’avvocato o per i familiari autorizzati dalla stessa magistratura, le questo è l’ennesimo dato di fatto che può portare chi non dispone di nulla all’esasperazione.

Se è vero che l’Amministrazione Penitenziaria offre diversi lavori all’interno del carcere, che rappresenterebbero anche una parte fondamentale del processo rieducativo, è altrettanto vero che i posti disponibili sono sempre inferiori alle richieste, per non parlare poi di chi vuole studiare, che deve essere in grado oltre che di mantenersi autonomamente, anche di comprarsi gli strumenti necessari al completamento degli studi.
Infine, è lo stesso Ordinamento Penitenziario a stabilire per legge, che solamente chi è in grado di avere buone disponibilità economiche, può uscire di prigione prima di quelli che non le hanno. Difatti per accedere alle pene alternative, è necessario avere una casa dove stare e una famiglia che ti possa mantenere. II formidabile lavoro delle comunità e del terzo settore, riesce solo a tamponare questa situazione, che potrebbe essere risolta utilizzando quel sistema politico economico che rappresenta, a mio avviso, la più importante conquista umana dopo quella dell’uso del fuoco, ovvero lo stato sociale.

Le non poche risorse che lo Stato offre al DAP (tre miliardi e cinque milioni di Euro per il 2020 fonte ministero Giustizia), dovrebbero essere distribuite principalmente per la rieducazione e per il sostegno economico dei soggetti più deboli e vulnerabili, anche attraverso la concretizzazione del concetto keynesiano (*) del creare un qualunque lavoro per dare un posto di lavoro. Invece in Italia il 67% delle risorse economiche stanziate è destinato alla Polizia Penitenziaria, in una percentuale che nemmeno le carceri americane, che hanno univocamente come fine ultimo la vendetta e la repressione, possono vantare.
Peraltro, al contrario di quello che si crede, investire nel supporto economico agli ultimi e nella rieducazione, genera proprio quel profitto venerato dalla società capitalistica, che nel sistema penitenziario si concretizza con il successo del reinserimento sociale del detenuto. La recidiva di coloro che scontano una pena nelle prigioni dei paesi dove lo stato sociale è stato meglio realizzato, Danimarca, Svezia, Canada, Norvegia etc, è tra il 20 e il 30 %, e cioè meno della metà di quello che avviene in Italia, il cui governo sta perseguendo ancora l’idea di applicare (come nelle scuole e nella sanità) quel criterio punitivo e turbo capitalistico, che ha prodotto risultati che parlano da soli: negli ultimi 20 mesi i detenuti che si sono suicidati sono 114, la maggior parte dei quali erano persone tanto economicamente e culturalmente povere quanto abbandonate a se stessi dallo Stato e dalla società.

(*) John Maynard Keynes, padre della macroeconomia è considerato il più influente economista del XX secolo. Riteneva necessario che per un buon funzionamento del sistema capitalistico, che debba essere Io Stato a stimolare la domanda di piena occupazione, se necessario persino “facendo scavare a degli operai dei buchi nel terreno, per poi ricoprirli di nuovo”.