Non vorremmo, con questa nostra lettera, aggiungere carta a carta e consolidare ulteriormente un rapporto che percepiamo come un giro di fascicoli dietro i quali la sua figura professionale nasconde a noi i suoi tratti personali e a lei i nostri volti.
Non siamo fogli di carta, intestata o di giornale, scritti con inchiostro sempre nero e non vogliamo confinare lei nel profilo anonimo di una figura istituzionale neutra e sorda alle istanze (non scritte) di umanità che le nostre storie gridano.
Le vicende scritte non invecchiano, mentre noi sì. Sappiamo che il tempo è nostro avversario, ma temiamo sia anche nemico suo. Noi stiamo maturando, controvoglia, una certa “professionalità dell’attesa”, ma siamo convinti che l’attesa sia nemica della sua professionalità.
Riconosciamo e rispettiamo la competenza professionale che trova espressione anche nell’ampio spazio discrezionale a lei assicurato. Chiediamo reciprocamente che sia riconosciuto il nostro diritto a conoscere l’esito del suo giudizio in tempi che non siano lasciati alla discrezionalità ma determinati dal rispetto dovuto alle persone che a lei si sono rivolte. Le attese (lentezze?) lunghe oltre i tempi ragionevoli contraddicono una delle finalità della sua missione, cioè sorvegliare il rispetto dei diritti soggettivi nell’esecuzione penale.
A differenza di un’opinione pubblica forse intenzionalmente disinformata, noi sappiamo tenere il conto dei mille benefici (16.113 permessi premio nel primo semestre 2024) da lei firmati e che hanno contribuito – com’è nelle loro finalità – ai nostri percorsi di reinserimento, a fronte dell’abuso di quello stesso beneficio perpetrato da uno su mille di noi. Apprezziamo la responsabilità che lei si assume ogni volta con la sua firma e ci assumiamo la nostra anche nei confronti dei nostri simili che vedono screditato dai pochi l’istituto delle misure premiali e alternative adottato a vantaggio non solo dei diretti beneficiari, ma della società civile.
A differenza di un’opinione pubblica forse intenzionalmente disinformata, noi sappiamo che la liberazione anticipata non è una smentita della pena né tanto meno un’offesa alle vittime, ma un’esecuzione della pena. Riconosciamo la responsabilità che lei si assume anche nei confronti di un’opinione pubblica esposta alla manipolazione. Siamo consapevoli anche delle nostre responsabilità, condivise con l’intera società civile, perché il carcere come le altre istituzioni dello Stato, non cambieranno se non lo richiede e per quanto lo richiede una società matura e informata.
Nella nostra bella Costituzione non si trova la parola carcere. A differenza di un’opinione pubblica forse intenzionalmente disinformata, noi sappiamo che il carcere non è l’unica forma di pena e non è nemmeno la più rispondente alla finalità rieducativa delle pene prevista dalla Costituzione. Lo indicano le percentuali fallimentari della recidiva (vicine ai 2/3) per quanti completano l’intero periodo dell’esecuzione penale in carcere, a fronte di una riduzione sostanziale della recidiva (meno di 1/5) per quanti, secondo diverse modalità, vengono ammessi a misure alternative al carcere. Noi riteniamo che il dato oggettivo non sia recepito dalla prassi ordinaria dei tribunali di sorveglianza.
Chi di noi interpella un suo giudizio è una persona diversa da quella che è stata condannata dal giudizio di un suo collega. Siamo certi che lei riconosce la funzione rieducativa della pena – e il carcere è una di queste – e dunque siamo certi voglia conseguentemente aprire un credito pregiudiziale al percorso di chi è stato condannato.