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“Auctoritas, non veritas, facit legem”: è l’autorità, non la verità, che fa la legge. Questo motto governa anche le nostre pseudo democrazie occidentali. Sono i più numerosi, non i più giusti o i più intelligenti, che prevalgono e fanno le leggi. La cosa auspicabile è evidentemente che leggi e giustizia vadano nella medesima direzione. Questa è una pesante responsabilità per il potere legislativo. Ma la legge è legge sia che sia giusta o no. “La legge è uguale per tutti” campeggia in ogni Tribunale ma “non tutti siamo uguali per la legge”, aggiungerei io.


In carcere ancora una volta le speranze alimentate dalle parole della ministra Cartabia prima e di Nordio poi non si sono tradotte in misure concrete per i detenuti. La delusione che ci pervade è dettata sempre dalla perdita della speranza, dal crollo delle aspettative: i partiti non sono riusciti ad approvare uno straccio di liberazione straordinaria anticipata che compensasse in qualche modo la doppia sofferenza della pandemia vissuta dentro alle galere.
Che la riforma della giustizia civile e penale rappresentasse una priorità per il nostro Paese, malato di arretratezza e lentezza nella celebrazione dei processi lo si sapeva, ma per accelerare percorso si è resa necessaria la “conditio sine qua non” imposta dall’Europa che ha legato l’erogazione dei fondi del PNRR all’approvazione della riforma. Non una parola invece sulla modifica dell’Ordinamento Penitenziario.

I segnali erano inequivocabili con il nuovo governo, che si è precipitato fin da subito a precisare che “è garantista nel processo ma giustizialista nell’esecuzione della pena”. Anche il cambio al vertice del DAP con la sostituzione di Carlo Renoldi è stato un triste presagio di quello che sarebbe toccato alle persone private della libertà.
Ma anche i governi precedenti non si sono mai preoccupati di risolvere il problema delle carceri, il loro sovraffollamento e le condizioni di vita dei detenuti spesso concausa di atti autolesionistici e di suicidi.
La politica infatti, quando non vuole o non è in grado di risolvere i problemi, crea con italica fantasia commissioni di studio, commissioni d’inchiesta, stati generali con l’unico obiettivo di gettare fumo e creare aspettative sempre puntualmente disilluse. Prova ne è che il tempo intercorso tra l’art. 27 della Costituzione e la prima legge che cerca di dare forma e attuazione a questo principio e cioè la legge 354 del 1975 è di ben ventotto anni.
Con il d.l. 152 del 1991 è entrato nell’ordinamento penitenziario il 4 bis, che nella sua prima fascia includeva i reati di mafia e terrorismo e successivamente quelli a sfondo sessuale e che creava un doppio binario nel trattamento dei detenuti, in quanto accanto al sistema ordinario ne creava uno parallelo più rigido e restrittivo, che di fatto riduceva o in tanti casi annullava la possibilità di accedere ai benefici penitenziari e rendeva la condizione della carcerazione più dura.

Con il governo Conte i grillini, smaniosi di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, hanno voluto estendere il 4 bis di prima fascia ai reati di concussione e corruzione e traffico illecito di influenze, con la “legge spazzacorrotti”. L’effetto sarebbe stato devastante per il ceto politico e per parte del mondo imprenditoriale, trattandosi di un business che ha sottratto annualmente alle casse dello Stato ben 80 miliardi di euro e che vale 1 punto di PIL.
Il governo Meloni, forte con i deboli e debole con i forti, a difesa della casta si è affrettato ad approvare un emendamento presentato dall’opposizione (ma quale opposizione?) per cancellare la spazzacorrotti dal novero del 4 bis di prima fascia.
Ciò significa che quando si vuole le cose si fanno e subito. E intanto per noi comuni mortali non resta altro che riattivare mestamente il pallottoliere con il quale conteggiare anche quest’anno le persone che di carcere muoiono.