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La colpa sarà stata sicuramente delle cipolle in agrodolce mangiate con avidità se questa notte il mio sonno, generalmente profondo e tranquillo, è stato funestato da incubi e da cupi presagi.
La notizia dell’arresto del latitante Matteo Messina Denaro dopo trent’anni di latitanza veniva lanciata con gli speciali di tutti i TG e subito la politica si affrettava ad acquisirne il merito con frasi a effetto “i nostri provvedimenti (ma quali?) hanno sconfitto definitivamente la mafia” diceva la premier Meloni, ricordando tragicomicamente l’annuncio del ministro Di Maio, che dal balcone di Palazzo Chigi proclamò di “aver cancellato la povertà con il reddito di cittadinanza”.
Nel rivoltami nel letto alternavo allora lo stato di “terrapiattista” a quello di “complottista” e per finire anche a quello di “negazionista”.

Mi chiedevo se dopo trent’anni di latitanza e mai un giorno di carcere si potesse celebrare un grande successo investigativo piuttosto che un fallimento delle nostre forze di polizia.
Ricordavo che quella notizia non era nuova, perché era stata già anticipata qualche mese fa dai microfoni di una trasmissione d’inchiesta da un pentito di mafia, fiancheggiatore dei Graviano di Brancaccio, che da quel di Omegna parlò di un Messina Denaro malato che si sarebbe consegnato o che avrebbero consegnato per fare un regalino al nuovo governo.
Ma l’avranno arrestato – mi chiedevo rigirandomi nel letto – in qualche popolosa città sudamericana dove anche il Mossad fatica a trovare gli ultimi generali nazisti autori del genocidio? No, la mia scarsa conoscenza della geografia, che mi faceva girare freneticamente il mappamondo alla ricerca di località esotiche e irraggiungibili è andata delusa. Campobello di Mazara è un paesino siciliano di poche migliaia di anime a qualche chilometro di distanza dal luogo di nascita di Matteo Messina Denaro, Castelvetrano.

L’inafferrabile “ultimo boss stragista” alias Bonafede, stimato geometra, l’ha quindi fatta in barba all’appesantito luogotenente dei carabinieri e ai suoi colleghi, la cui stazione distava non più di 100 metri dal covo del latitante. E ci può stare! Non credo però che potesse sfuggire alle comari del paese che sedute in strada davanti al portone di casa sanno tutto di tutti. Loro conoscono le corna che Sasà ha fatto alla moglie, conoscono Totò il furbetto del cartellino che, per andare a coltivare i campi, ha lasciato l’incombenza di timbrare ai suoi colleghi, sussurrano della fuitina della figlia di comare Anna con il figlio di Meste Ciccio, i gusti sessuali ambigui dell’infermiere del paese e i modi gentili e accomodanti del medico condotto. Non ci credo che a loro sarebbe sfuggito l’arrivo in paese di un nuovo abitante, e che senz’altro avrebbero fatto tac e risonanza magnetica a chiunque fosse entrato nel loro raggio d’osservazione. Eppure quel geometra, che indossava abbigliamento elegante e disponeva di un arsenale di profumi francesi, non l’avevano mai visto. L’omertà siciliana l’ha coperto in tutti questi anni o Messina Denaro è apparso a Campobello solo quando ha deciso di consegnarsi?!?

Anche l’arresto ha del paradossale. È stato un blitz studiato e preparato dalle forze dell’ordine con estrema cura, come è stato detto nella conferenza stampa del magistrato antimafia, che ha sottolineato anche il ruolo fondamentale che hanno avuto le intercettazioni nell’arresto del boss, senza però citarne neanche mezza.
Matteo Messina Denaro, super latitante e pluricondannato già a diversi ergastoli, uno che ormai non aveva niente da perdere, preoccupato della condanna per porto abusivo d’armi girava disarmato. Il suo autista e guardaspalle, noto olivicoltore, era invece armato. Non di una pistola, né di un mitra ma di un coltellino svizzero.
E poi sarei stato curioso di vedere cosa avrebbe fatto l’uomo dei Ros se alla domanda “mi dica le Sue generalità”, Messina Denaro avesse risposto declinando nome e cognome falsi. Comunque glielo ha richiesto due volte per paura che il cellulare in modalità registrazione non avesse registrato. Purtroppo però non ha avuto il tempo di scattare anche un selfie da condividere con la moglie e i figli. Eppure il boss indossava un paio di Ray-Ban come quelli vintage trovati a casa della madre, collezionati per mascherare il congenito strabismo di Venere.
E poi eccolo senza manette, che viene scortato all’auto di servizio. Un manifesto che sottolinea la “parità di genere” nell’Arma dei Carabinieri.

È fatta, l’ex super latitante viene finalmente rinchiuso nel carcere dell’Aquila al regime del 41 bis. Qui inizia la parte più tragicomica. Si cercano i covi, i fiancheggiatori, la “borghesia mafiosa” che avrebbe coperto la latitanza trentennale. Con I’uso dei geo radar si cercano botole e anfratti nelle case di Campobello. Ma prima questi strumenti erano fuori servizio?
Nei luoghi da cui è passato, oltre ai preservativi e a qualche scontrino fiscale per non dispiacere a Valerio Staffelli di Striscia la Notizia, l’attenzione degli inquirenti si concentra su alcuni poster, sui libri e su alcuni magneti che, abitualmente, fanno bella mostra sui nostri frigoriferi. Il Padrino Marlon Brando, Joker e le biografie di Hitler e Putin sono psicoanalizzati da uno stuolo di criminologi, psichiatri forensi, giuristi tutti pronti a guadagnare la visibilità sui quotidiani con dichiarazioni che dicono tutto e il contrario di tutto
Ciò che segue è patrimonio esclusivo di Barbara D’Urso. Dopo trasmissioni dedicate all’eredità di Aldo Buzzanca prima e di Gina Lollobrigida poi, ha da occuparsi del tesoretto di Matteo Messina Denaro. La figlia Lorenza che non è mai stata riconosciuta dal latitante e che sembrava aver preso le distanze, si affretta a smentire queste voci e promette di non abbandonare il padre in carcere. Si scopre anche un figlio nato da una relazione occasionale del padrino. Un padrino che conferma anche le più elementari leggi di natura, e cioè che “il pene non vuole pensieri”. Ci sarà da divertirsi!
Sono sudato, il cuscino trasuda acqua e l’incubo continua.

Penso a Matteo Messina Denaro, un moribondo a cui è stato diagnosticato un tumore terminale al colon, che gli lascia solo alcuni mesi di vita, arrabbiatissimo con se stesso per aver indossato al momento dell’arresto un orologio Frank Muller da 35 mila euro e non i suoi preferiti Rolex Daytona Paul Newman o il Calatrava di Patek Philippe. E poi una Giulietta come auto e non Ferrari, Lamborghini, Porsche come la fantasia popolare avrebbe idealizzato. Non sappiamo come, viene quantificata in 7.000 euro la spesa media mensile del boss, mentre vari servizi televisivi offrono agli italiani affamati di gossip e smaniosi di vedere dalla toppa della serratura, la casa nella quale avrebbe trascorso la latitanza. Una casa da universitari fuori sede, con un mobiletto Ikea sul quale c’erano una decina di paia di scarpe, una panca per gli addominali e un arredamento lontano parente dei fasti dei Casamonica. Eppure quel buco di casa ogni giorno riserva un ritrovamento nuovo: titoli di viaggio, una pistola a tamburo, e diverse altre sorprese.
Lo consola di essere riuscito a far laureare in legge edabilitare alla professione di avvocato la nipote, che ne acquisirà la difesa e che potrà meglio di qualunque pizzino aggirare i limiti penitenziari del 41 bis.

La fantasia tutta italiana intorno a questa paradossale vicenda ha coniato un neologismo dopo quelli di “narcomafia” e “ecomafia”. “Massomafia” è il termine inventato per idealizzare una massoneria deviata che avrebbe coperto il latitante in tutti questi anni. Addirittura si parla di un Messina Denaro maestro venerabile di una loggia. Lui incappucciato e con squadra e compasso in mano forse per studiare da “geometra” e assomigliare di più ad Andrea Bonafede a cui aveva sottratto l’identità.
Eppure per chi ha i capelli bianchi non è difficile ricordare le stagioni dei misteri italiani: le stragi di Piazza Fontana, quella della stazione di Bologna, il rapimento Moro, la lotta armata delle BR, Gladio, la P2 di Licio Gelli, Calvi e l’Ambrosiano, la stagione stragista di Cosa Nostra.
In ognuna di queste inchieste, che hanno sempre lasciato strascichi polemici, compare puntualmente la Massoneria a mascherare i disastri e le storture dei nostri servizi segreti deviati.
La storia di Matteo Messina Denaro è quindi per molti versi paragonabile a quella di Massimo Carminati, che ha costruito l’impunità del suo percorso criminale grazie al frutto della rapina compiuta nelle cassette di sicurezza del caveau della Corte di Cassazione a Roma, che contenevano sicuramente documenti in grado di condizionare la vita della nostra Repubblica. Allo stesso modo Matteo Messina Denaro è forse il depositario dei segreti di Riina trafugati dal suo covo, mai perquisito, di Palermo. Segreti che coinvolgerebbero politica, magistratura e imprenditoria e che hanno consentito latitanze lunghe e sicure.

Questo arresto è riuscito anche a dividere la Chiesa nella domenica dedicata da Papa Francesco alla Parola, nella quale Paolo ricorda che bisogna essere univoci nei messaggi nel nome di Cristo.
Ebbene Messina Denaro diventa il destinatario di una lettera del parroco anticamorra Michele Patricello che invita il boss a smettere di barare con se stesso, a gettare la maschera, a liberarsi del personaggio e a chiedere perdono a Dio e al prossimo. La Chiesa per lui ci sarà perché Gesù non è venuto per i giusti ma per i peccatori. Di diverso parere il vescovo emerito di Mazara del Vallo monsignor Mogavero, che senza mezzi termini ha dichiarato che per una persona come Messina Denaro non si può avere pietà, ha ammazzato tanto, ha sparso tanto sangue, ha ucciso tanti innocenti.

In assenza del pentimento del boss e con il suo silenzio è più facile invece procedere ora all’arresto di tutti quelli che hanno avuto contatti più o meno leciti con Matteo Messina Denaro alias Bonafede, con la mafiosità per induzione. Chiunque sfiori un mafioso diventa un mafioso pure lui. E ricorrente risuona nei palazzi del potere la frase che “il mafioso è per sempre”, e ciò per rispondere all’illegittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo con l’idea salvifica contro le nostre paure, contro la nostra insicurezza che è necessaria più galera, ed un inasprimento delle pene. Che è necessaria la scorciatoia della punizione e della carcerazione come tutela della sicurezza collettiva. Sappiamo tutti che è un falso, alimentato abbondantemente da un’informazione che asseconda una tendenza che è propria dei politici ma che è ormai presente anche tra la gente comune.

L’informazione che, in presenza di una “mafia silente” che ha messo in soffitta coppola e lupara e investe in trust transazionali, continua a ignorare che 30 anni sono un pezzo di storia d’Italia e che la mitizzazione di questi personaggi non rende un buon servigio all’Italia. Oggi è ingenuo pensare che la mafia segua le gerarchie di trent’anni fa, o i cognomi di trent’anni fa. Oggi le appartenenze a queste nuove forme di organizzazione non sono più vincolate, come accadeva nel passato, dalla provenienza dallo stesso paese o dalla stessa regione. Oggi convivono insieme persone con gli occhi a mandorla, persone con il colore della pelle diverso e che parla lingue diverse.
Descrivere ‘u Siccu come milionario e sciupafemmine fa solo buona pubblicità alla mafia. Ci sono quartieri e interi paesi del Sud Italia dove il lavoro non c’è, e molti ragazzini crescono con quel bisogno di lavoro e con la fame di possedere soldi e potere, e parlare in quei termini della mafia spinge molti di quei ragazzini di quei quartieri popolari verso quel mondo. Occorre invece dire invece con forza che seguire quel modello di vita non porta solo soldi e potere ma che, nella migliore delle ipotesi, ti porta ad andare in carcere per tutta la vita se non ad andare ad occupare prematuramente un posto nel cimitero cittadino.

Diceva il compianto Giudice Falcone che la “mafia è un fenomeno umano e quindi finirà”. Non la pensano in questo modo forse i suoi colleghi delle procure distrettuali e i “professionisti del bene”. Forse non lo pensa neanche Matteo Messina Denaro.
“Aiò” mi grida il latitante sardo che ha scalato la classifica dei latitanti più pericolosi appropriandosi del 1° posto. Ci sono anch’io, anch’io cammino in macchina affiancato ai carabinieri e tengo a bada le mie pecore in Barbagia. Ma non sono così famoso e soprattutto non sono mafioso.
Sono le 7:30 e fortunatamente è ora di svegliarmi e mettere la parola fine a quest’incubo!