di Fabrizio Pomes/C’è una verità che fa comodo a molti: la sicurezza si costruisce con il cemento e il filo spinato. Che una condanna più lunga, un ergastolo, un carcere sovraffollato, siano sinonimo di giustizia forte e, quindi, di società più sicura. È un’equazione semplice, rassicurante. Ma è una bugia tragica e costosa, che paghiamo in dolore umano e in insicurezza cronica.
Come se chiudere un uomo in una cella fosse la soluzione, come se una porta che si chiude dietro di lui potesse cancellare il dolore, il rimorso, il gelo che ha nel cuore. Ma la realtà spezza questa illusione gelida: il vero pericolo non è tra le sbarre, è nella perdita di speranza che diventa peso insopportabile, è nell’anima che si indurisce, è nel ritorno disperato a quei gesti che già ieri hanno distrutto vite. La vera sicurezza nasce solo quando quella ferita profonda trova cura, quando chi ha sbagliato riceve davvero la possibilità di ricostruirsi, di non tornare indietro.
La realtà dietro le sbarre
Eppure, dietro quelle mura fredde, non ci sono solo volti di colpevoli, ma volti spezzati dalla vita,
cancellati dall’amore, abbandonati alla solitudine più cupa. Ogni giorno, in quelle celle, uomini e
donne lottano contro la paura di tornare a sbagliare, contro il senso di inutilità che il carcere amplifica come un eco senza fine. Non è punendo senza speranza che si protegge la società, ma dando a chi ha sbagliato la possibilità di rialzarsi sulle proprie gambe, di ritrovare un motivo per dire “non lo farò più”.
La vera sicurezza non si misura dal numero di persone rinchiuse, ma dal numero di quelle che, uscite da quel cancello, non commetteranno più reati. La sicurezza è l’assenza futura di vittime. E questa si costruisce non spezzando le persone, ma restituendo loro un pezzo di umanità.
Il carcere punitivo, quello che si limita a contenere e umiliare, è la più grande fabbrica della recidiva.
Più carceri non è sinonimo di più sicurezza
È una scuola del crimine dove la violenza è l’unico linguaggio, dove i legami affettivi si spezzano, e
dove l’unica identità possibile è quella di “criminale”. Chi esce da un’esperienza del genere è spesso più arrabbiato, più solo, più disperato di prima. Senza un lavoro, senza una casa, senza un barlume di speranza, il reato non è una scelta, ma l’unica strada conosciuta per sopravvivere. E così, quella stessa persona che abbiamo rinchiuso per “proteggerci”, torna tra noi più pericolosa di prima, creando nuove vittime. È un circolo vizioso di dolore che alimentiamo a nostre spese.
Smentire la tesi “più carcere = più sicurezza” non significa essere indulgenti con il crimine. Al
contrario, significa essere duri, intelligenti e pragmatici. Significa pretendere che la giustizia sia
efficace, non solo vendicativa.
Istruire è la chiave
Investire in misure alternative al carcere per reati minori, in lavoro penitenziario vero, in istruzione, in terapie per le dipendenze e l’assistenza psicologica, non è “coccolare i carcerati”. È un’opera di
ingegneria sociale che protegge i cittadini. È come curare una malattia contagiosa: isolare il malato è necessario, ma se non lo curi, quando esce diffonderà il virus ancor di più.
Ogni euro speso per rieducare un detenuto è un euro che risparmieremo in future investigazioni,
processi, e soprattutto, in vite innocenti spezzate. È un investimento sulla sicurezza dei nostri figli.
La vera forza di una società non si vede da quanto è alto il muro delle sue prigioni, ma dal suo
coraggio di abbattere i muri dentro le persone. La sicurezza non si compra con altre sbarre. Si
costruisce restituendo, a chi ha sbagliato, la possibilità di diventare una risorsa, e non più una minaccia.
Perché la società più sicura non è quella che ha più prigioni piene, ma quella che ha saputo creare più seconde possibilità. E, in fondo, più uomini liberi dal peso dei loro errori.
La vera battaglia è su questo terreno: abbattere la recidiva è l’unica via per una società davvero
protetta. Non per meno carcere, ma per miglior carcerazione e soprattutto per un dopo carcere che dia valore alla vita e al futuro.
E se il dolore, per noi che siamo stati dentro, ci ha insegnato qualcosa, è proprio questo: la libertà è un diritto da difendere anche dentro il carcere, perché solo riconoscendo e nutrendo quella libertà si può davvero costruire sicurezza per tutti.





