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di Marco Valenti / Quando ho iniziato questo articolo, avevo in mente un argomento che sto studiando da diversi mesi, e cioè il rapporto tra reato, pena e castigo.
Il reato consiste nella violazione di norme, quindi delle leggi. È evidente che il buon funzionamento di una collettività si basa sul rispetto delle leggi, buone o cattive che siano. Le leggi possono essere contestate, ma non è consentito violarle.

La pena è immaginariamente la constatazione della violazione, come viene riportato dal sociologo francese Didier Gossin e da molti altri studiosi del tema. Il castigo è la giusta sofferenza, quale conseguenza della pena affinché il reato non si ripeta. Purtroppo, però è anche un modo per far uscire dalla società chi è diventato pericoloso per il sistema stesso, oppure, ancor peggio, una forma di vendetta sociale.
Ovviamente tutta la sociologia e l’antropologia moderna si bloccano a questo punto. E la domanda è: “qual è il giusto castigo?” quindi per conseguenza “qual è il giusto atteggiamento per evitare il ripetersi del reato?” e qua si ferma anche la mia riflessione, non trovando una soluzione apparente.
Infatti alla violazione delle regole deve corrispondere una pena/castigo, e questo è un fatto che trova l’accordo di tutti; ma questo castigo deve essere giusto, perché quando la durata e le modalità della sofferenza sono inadeguate o spropositate, la pena diventa vendetta sociale, e, ovviamente, non risolve più il problema.

La deviazione e il crimine oggi sono affrontati dai paesi occidentali in modo più pensato, cercando di intervenire attraverso forme di ricostruzione della personalità del reo, applicando varie forme di assistenza psicologica. Tutti i paesi europei hanno legiferato al riguardo, ma purtroppo solo pochi di essi hanno poi applicato le leggi, restando di fatto al punto di partenza.
Ovviamente in Italia il problema è ancora più grave, perché è un problema sociale. Il nostro sistema non è in grado di offrire, a chi ne ha bisogno, quegli strumenti necessari per non commettere, nella maggior parte dei casi, il reato; inoltre, quegli strumenti non sono disponibili né durante il tempo del castigo, né dopo aver scontato la pena (casa, lavoro, istruzione e giusta assistenza psicologica).
Ancora, per molti ex detenuti, il periodo del dopo pena è altrettanto complicato, sia per il logico sbandamento che la mente subisce dopo la carcerazione, quanto per la conseguenza di pregiudizi e disparità del mondo esterno che di fatto dimostra quanto la società sia restia a concedere una seconda opportunità al reo, spingendolo indirettamente a reiterare il proprio crimine.

La vita carceraria è scarsa di opportunità di socializzazione, nel senso che non esiste una forma di intrattenimento oltre il livello basico delle persone. È come se tutti tornassimo a cinque anni di età, e si ricominciasse da capo il percorso di crescita individuale.
Ovviamente è scarso il funzionamento del sistema sanitario, e di tutte le assistenze di base; per il carcerato i doveri sono obbligatori, ma i diritti spesso sono violati dallo Stato stesso, dentro al quale il carcere è una bolla isolata.
Nel rapporto con il sistema di sorveglianza, pesa l’applicazione delle leggi e delle regole spesso gestite in modo limitativo, utilizzando l’ottica restrittiva piuttosto che le ragioni fondanti delle disposizioni legislative. Forse anche qui siamo in presenza di una mentalità genericamente detta giustizialista.
Ma se un carcerato non ha compiuto una vera analisi del reato, come spesso viene detto, la colpa è del carcerato o di chi lo avrebbe dovuto innescare sul suo percorso di quest’analisi introspettiva? La risposta mi sembra abbastanza evidente. Non sia questa presa come un’accusa, ma se colpa si deve cercare questa la si può trovare nelle mancanze del sistema più che nel detenuto.

Queste problematiche, mi hanno fatto nascere molte domande. Quindi ho cercato di leggere il più possibile sull’argomento per darmi delle risposte.
Ho concluso che le scelte politiche sul tema sono marcatamente giustizialiste, incapaci di frapporsi tra la cattiva giustizia e il consenso popolare. Quindi la risposta è il nulla. Ovviamente, quando parlo di cattiva giustizia parlo di tutte le controversie giuridiche, non riferite al singolo giudice ma alle disfunzioni del sistema giustizia, che rendono piano piano arrendevoli e sconsolati i cittadini che le subiscono.
Mentre sviluppavo queste riflessioni ho partecipato alla settimana della giustizia riparativa, organizzata in carcere; mi sono avvicinato al tema con una curiosità più culturale che di esigenza personale per la tipologia dei miei reati, ma posso dire di aver trovato qualche illuminazione che non mi aspettavo. È stata una settimana intensa, piena di incontri con autorevoli rappresentanti della giustizia riparativa, quali avvocati, mediatori, uomini di chiesa e giudici; ma soprattutto familiari di vittime.

Tutto questo mi ha aperto ad un mondo nuovo. La giustizia riparativa è legge, ovvero nei prossimi anni la rivedremo spesso all’interno del tema giustizia, ma è evidente il fatto che l’interpretazione è ancora molto debole, ovvero i punti operativi sono discordanti, la lista dei mediatori è ancora da fare, i procedimenti sono incompleti. Questo è risultato ben chiaro dalle differenze delle spiegazioni date nei vari interventi.
Io personalmente ho però percepito un’innovazione eccezionale, la risposta ai miei dubbi di questi mesi. La giustizia riparativa è un’idea, ma è anche una legge. Va sviluppata, ma se ne dovrà parlare. Non è giustizia ordinaria, ma le cammina accanto, ed è proprio quest’accanto che mi fa sperare. Perché il tempo non dovrebbe cancellarla, ma regolarla, e noi tutti saremo costretti a parlarne. Ma anche il sistema ne dovrà parlare così come i cittadini. È un embrione che si muoverà più o meno lento, ma che dovrà camminare sempre più vicino alla giustizia ordinaria e forse un giorno potrà esserle equivalente, cioè cambiare l’idea di giustizia, tornando al recupero della persona vero e non più alla vendetta sociale. Questa mi appare come la giusta risposta al pensiero moderno di giustizia, e termino pensando che non si può perdere questa opportunità, che dovrà essere ma coltivata e sviluppata nel suo insieme, per un futuro migliore.