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di Athos Vitali / In questi anni di detenzione ho visto tanti fare la fila per un colloquio con l’ispettore di reparto solo per chiedere un posto di lavoro e in caso di non accoglimento dell’istanza dar vita ad atti di autolesionismo. Così non dovrebbe essere. Il lavoro è importantissimo per chi non ha una condizione familiare in grado di sostenere le spese e quindi imprescindibile se si vuole dare dignità alla detenzione.
In conformità ai principi costituzionali, l’art. 15 della legge n. 354/1975 (intitolata “Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”) ha identificato il lavoro come uno degli elementi del trattamento rieducativo. Questo trattamento include l’istruzione, la formazione professionale, la partecipazione a progetti di pubblica utilità, attività culturali, ricreative e sportive, il mantenimento di contatti con il mondo esterno e i rapporti con la famiglia.

La legge stabilisce espressamente che, salvo casi di impossibilità, ai condannati e agli internati deve essere garantita un’occupazione lavorativa. Ma la scarsità delle risorse disponibili per finanziare il lavoro intramurario (quello per intenderci alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria: scopino, portavitto, spesino, lavapentole, cuoco, manutentore dei fabbricati) e lo scarso appeal verso le aziende private ad investire all’interno del carcere fanno sì che quello che è un diritto diventi nei fatti un privilegio. La questione della distanza tra la teoria normativa e la pratica penitenziaria rappresenta uno degli aspetti più critici nel diritto penitenziario contemporaneo e occorre colmare tale gap con priorità assoluta.
I detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria percepiscono una remunerazione pari ai 2/3 di quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali di lavoro; hanno diritto tuttavia alle ferie retribuite e alla indennità di malattia, alla contribuzione assistenziale e previdenziale.

Per quanti lavorano invece con aziende terze all’interno dell’Istituto la remunerazione è equiparata ai lavoratori che operano nel libero mercato secondo i contratti di categoria. Purtroppo le esperienze positive e virtuose che operano all’interno della Dozza, come F.I.D. e il Call center del CAF Acli e la sartoria al femminile, riescono ad assorbire solo il 3-4% della popolazione detenuta. Numeri troppo bassi perché si possa parlare di successo ma sufficienti per tracciare un percorso lungo il quale muoversi per promuovere formazione, lavoro e successiva collocazione dei detenuti all’esterno, una volta ultimata la pena o quando ammessi a misure alternative alla detenzione.
Un ruolo importante lo possiamo recitare anche noi detenuti perché la cosa più difficile è sradicare la tendenza a vivere l’opportunità lavorativa in modo strumentale anziché considerarla un’opportunità che può cambiare gli schemi e la tua vita.

In sostanza, lavorare sull’acquisizione e il rafforzamento di competenze relazionali oltreché tecniche doterebbe il detenuto di nuovi strumenti e aumenterebbe la possibilità di ottenere e mantenere un lavoro dopo la detenzione.
Secondo le statistiche del DAP, quasi il 70% dei detenuti torna a delinquere; la percentuale si abbassa sensibilmente per i detenuti che abbiano svolto un’attività lavorativa durante la detenzione. Si tratta oltre che di un danno economico, anche di un fallimento che richiede attenzione poiché nessun Paese accetterebbe che negli ospedali morissero 7 ricoverati su 10 o che nelle scuole fossero bocciati 7 studenti su 10.
Da pensionato concludo sperando che l’ottimismo della volontà con la quale affrontare la delicata problematica relativa la lavoro all’interno del carcere non lasci spazio al pessimismo della ragione.