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di Felice Broccoli / È noto che il carcere è un luogo di limitazioni personali, penso ad esempio all’impossibilità di muoversi come si vorrebbe, al tempo limitato per stare con i propri cari, alla mancanza di affetto, al divieto di utilizzare molti beni di consumo…

Queste condizioni non definiscono certo un luogo sereno, in cui si possa vivere in modo disteso. Questo, almeno, per noi ospiti forzati. Ma c’è con noi un ospite che, al contrario di noi, ha deciso volontariamente di vivere qui alla Dozza, e pare trovarsi a suo agio fra queste mura.

All’inizio l’ho notato, o meglio l’ho sentito al sorgere del sole. Di solito in campagna o nei luoghi di periferia si viene svegliati dal canto del gallo; qui, invece, è un bell’esemplare di pennuto a darci il buongiorno: è un fagiano maschio con un elegante piumaggio dai diversi colori, marroncino tendente al rosso nel corpo, con qualche sfumatura viola, rosso intenso intorno agli occhi, cerchiato di bianco sul collo. La coda farebbe invidia a un alpino, che non esiterebbe a metterla come ornamento sul proprio berretto. L’ho notato dalla finestra della cella, da cui si vede un pezzo di terra in mezzo ai vari cortili di cemento dove andiamo, nelle ore d’aria, a passeggiare. Lui passeggia dove vuole, tranquillo e indisturbato tra l’erba, con le sue compagne, senza alcun timore di essere impallinato e messo al forno. Si nasconde talvolta fra l’erba quando passa l’auto della polizia penitenziaria sotto il muro di cinta. Evidentemente sa di essere in difetto, e di violare l’art. 556 del codice penale, che condanna la bigamia. Ma ben presto riprende tranquillamente la sua vita, la sua solita routine in questa, per lui, oasi felice. Presto, ne sono certo, vedremo svolazzare e saltellare alcuni fagianini insieme alle loro madri.