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di Athos Vitali / Il concetto di carcere come strumento di punizione è radicato nella storia umana, ma è essenziale ricordare che il carcere non deve essere una vendetta di Stato. La funzione primaria delle carceri dovrebbe essere quella di riabilitare i detenuti, offrendo loro opportunità di riflessione, crescita personale e reintegrazione nella società. Trasformare il carcere in un luogo di vendetta non solo contraddice i principi di umanità e giustizia, ma si rivela anche inefficace nel lungo termine.


La vendetta, come motore del sistema penale, ignora le complesse dinamiche sociali ed economiche che spesso conducono alla criminalità. Punire senza considerare queste radici significa perpetuare un ciclo di esclusione e recidiva. Invece, un approccio riabilitativo che include programmi educativi, formazione professionale e supporto psicologico può rompere questo ciclo, offrendo ai detenuti una reale possibilità di cambiamento.
È importante anche considerare l’impatto della vendetta di stato sulle famiglie dei detenuti. Quando un individuo è trattato con disumanità, le sue famiglie soffrono, perpetuando traumi intergenerazionali e sentimenti di alienazione. Un sistema giusto e compassionevole può invece favorire la riconciliazione e il ripristino dei legami familiari.
Infine, una visione del carcere come vendetta alimenta la disuguaglianza sociale. Spesso, sono i membri delle comunità più svantaggiate a subire le pene più severe, amplificando le ingiustizie sociali.
L’umanizzazione della pena è un principio fondamentale per un sistema giuridico giusto ed efficace. Per trasformare il carcere da un luogo di mera detenzione a uno di riabilitazione e reintegrazione sociale, è necessario adottare una serie di misure e politiche che promuovano il rispetto della dignità umana e offrano reali opportunità di cambiamento ai detenuti.


Un primo passo verso l’umanizzazione della pena è migliorare le condizioni di vita all’interno delle carceri. Sovraffollamento, strutture fatiscenti e mancanza di accesso a servizi di base come l’assistenza sanitaria compromettono la dignità dei detenuti. È essenziale investire in infrastrutture adeguate, garantire condizioni igieniche e di sicurezza e fornire un accesso costante a cure mediche e supporto psicologico.
I programmi educativi, la formazione professionale, la possibilità di coltivare i legami familiari e affettivi, il supporto psicologico, la cultura del rispetto da parte dell’istituzione penitenziaria sono elementi chiave per rendere la pena una reale palestra di reinserimento sociale. E chi vive la detenzione, vive sulla sua pelle la distanza fra i principi dell’ordinamento e la realtà concreta.
L’evoluzione positiva del sistema penitenziario non può però prescindere dalla politica. È vero, infatti, che la politica e la società civile spesso rimangono silenti quando si parla di carcere, lasciando questo tema ai margini del dibattito pubblico. Tuttavia, è essenziale portare avanti una discussione aperta e informata sull’umanizzazione della pena per promuovere un cambiamento positivo.


Fino ad oggi poco e male si è fatto. La mia esperienza di detenuto è coincisa con diversi governi e tutti hanno creato aspettative che puntualmente sono state disattese e che in alcuni casi sono la concausa di episodi suicidari e autolesionistici da parte di chi è privato della libertà ed attende speranzoso che qualche riforma vada nella direzione auspicata.
Sono partito con al governo il Ministro Bonafede che non ha mai voluto affrontare la problematica carcere se non con slogan che rilanciavano la costruzione di nuove strutture e con nuovi reati e inasprimenti di pena. Fortunatamente una stagione che non ha lasciato alcun segno nel ministero della Giustizia e nell’opinione pubblica e che è stata presto dimenticata per l’assenza di proposte concrete.
Poi è arrivato il Covid e al governo è arrivata la ministra Marta Cartabia, stimatissima presidente della Corte Costituzionale, che ha creato tantissime aspettative nella popolazione detenuta, perché affermava che il carcere deve essere l’extrema ratio, e che il fondamento delle pene deve assumere un volto umano, teso al recupero di chi ha sbagliato. Ma anche in questo caso e nonostante gli sforzi compiuti il risultato è stato lo stesso o quasi. Si auspicava una liberazione anticipata straordinaria per lenire almeno in parte le sofferenze patite dai detenuti durante la pandemia, ma non si è approdati a nulla. In compenso la Ministra è riuscita a mettere in piedi una riforma a fine mandato i cui effetti pratici si dispiegheranno nei prossimi anni.


E alla fine con il Governo Meloni è stato scelto come Guardasigilli il Ministro Carlo Nordio. Un passato di procuratore ma anche una fama di garantista attento alle problematiche della popolazione ristretta. Nordio, anche lui animato da positivi propositi, ha dovuto far presto i conti con gli alleati di governo e piuttosto che perdere la poltrona ha optato per una virata a 180 gradi. Per cui con il Decreto Caivano prima e con quello Sicurezza poi ha chiarito il perimetro politico nel quale si sarebbe sviluppata la sua azione di governo. Ma l’alto numero di suicidi da parte dei detenuti nelle carceri italiane imponeva un’azione decisa da parte del Governo e allora si è corsi a fare il Decreto carceri che nelle premesse, e solo in quelle, avrebbe avuto il compito di umanizzare la pena.


Alla fine la montagna ha partorito un topolino. Nuove assunzioni per tamponare le proteste dei sindacati di polizia penitenziaria, il deja vu di strutture alternative al carcere per malati psichiatrici e piccoli reati di cui l’Italia ad oggi è pressoché sprovvista, una rivisitazione ancora poco chiara sul meccanismo di conferimento della liberazione anticipata e stesso numero di colloqui familiari e telefonate.
“L’aumento dei giorni di liberazione anticipata sarebbe una sconfitta per lo Stato”, ha tuonato il buon Nordio che ometteva però di dire cosa rappresentano per uno stato di diritto che ama definirsi civile, 53 eventi suicidari tra i detenuti (dell’ultimo di 81 anni nel carcere di Potenza ne apprendo la notizia mentre sto scrivendo l’articolo) e 6 tra gli agenti della polizia penitenziaria.
Concludendo, il 17 luglio la proposta di legge Giacchetti sulla liberazione anticipata straordinaria sarà discussa in aula. Tuttavia, è importante ricordare le esperienze passate e rimanere cauti, evitando di farci troppe illusioni. La politica, spesso, non dà risposte adeguate ai detenuti, lasciandoli in una condizione di incertezza e attesa. A tutti coloro che stanno vivendo il carcere, l’invito è a mantenere la speranza, ma con la consapevolezza che il percorso può essere lungo e incerto.