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Di Carla/Ho le gambe sotto un tavolo quadrato, apparecchiato di bianco e rosso. Al centro un bel papavero fatto di cartapesta. Sotto gli occhi, Il tovagliolo e le posate. Di lato anche un calice. Mi guardo attorno e sono tutti seduti ai loro tavoli. Accanto a me Chiara e Federica, fedeli compagne.
Potrebbe essere un ristorante qualsiasi. E invece no, è un ristorante speciale. Un ristorante “palcoscenico”.
Siamo alla casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna, è il dieci maggio, piove come se fosse novembre ma non importa. L’attenzione è tutta per lo spettacolo teatrale a cui stiamo per assistere e di cui siamo noi stessi scenografia.

“Hell’s Kitchen” – Dio fece il cibo ma certo il diavolo fece i cuochi. Così s’intitola il lavoro dell’anno della compagnia del Teatro Dell’Argine nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra” che punta a riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza.
Nella scena, da un lato la sala di un ristorante, dall’altro una cucina vera e propria, con le pentole ed i fornelli fumanti. E come ogni ristorante che si rispetti il tutto prende vita proprio mentre arrivano in scena i camerieri, il maitre e i cuochi. Un gran brulicare da un lato all’altro: qualcuno ci illustra le regole del galateo, qualcuno ci accoglie, qualcun altro già sta andando ad accendere i fornelli. Qualcuno litiga o ha già litigato, anche se non si sa bene il perché.
E proprio davanti a quei fornelli e ai piatti da portare in sala prendono vita le dinamiche umane. I caratteri più forti, quelli più deboli, i valori. Ognuno che vorrebbe pensare al suo ma non può sfuggire alla vita della brigata.
Allora mi viene in mente una frase tanto famosa: “Siamo quello che mangiamo”. E penso che siamo soprattutto anche i rapporti e le dinamiche che stanno dietro a quello che mangiamo. La cucina altro non è che l’ennesimo microcosmo nella nostra realtà. Il cinico, l’aggressivo, il disattento ma anche il buono, il sognatore, il silenzioso che lava i piatti.
A noi spettatori questo microcosmo arriva. Ed ognuno oltre a portarci qualcosa di diverso dell’animo umano, ci porta anche il suo dialetto. E così finiamo per girare tra i caratteri e le culture. Ognuno col suo mondo ma col semplice obiettivo di cucinare e portare i piatti a tavola.
Eppure fa il suo effetto vedere questo microcosmo, all’interno di un altro microcosmo che forse di micro ha poco, come il carcere.

Mentre un attore in scena dice che una parte di lui sogna che questo posto scompaia ma qualcuno gli ricorda che ci sarà sempre qualcun altro che lo vivrà, si fa fatica a mantenere distinti i confini fra il teatro e i corridoi grigi che ci circondano. Perché ci sono dinamiche di questo spettacolo, tanto simili a quelle che si sviluppano a qualche piano più su.
Perché in fondo fuori come dentro, vorremmo essere tutti cuochi, anche se dobbiamo fare il cameriere o il semplice aiuto in cucina. Poi ci tocca pure stare a sentire qualcuno, seguire gli ordini. E finisce che guardiamo sempre da un’altra parte e terminiamo col bruciare tutto o col far cascare tutti i piatti per terra. Succede quasi sempre quando si è incastrati in una macchina che va da sola, senza l’armonia dei suoi passeggeri.
Ma nonostante tutto la brigata che si muove sul palcoscenico respira tutta insieme. E il maitre all’ingresso non è poi tanto lontano dagli addetti alla linea dei dolci. I camerieri si guardano e si scambiano i lati, servono e si lanciano battute. Qui nonostante le difficoltà della cucina e della vita, ci si osserva e ci si sostiene. E allora mi viene in mente un’altra frase tanto semplice che mi ripete una persona cara ogni volta che mi vede cucinare: “Quello che ci metti ci trovi”.

In cucina come nella vita è importante il peso che dai alle cose. Quello che decidi di usare e quanto vuoi rischiare. Quel bell’equilibrio tra il gusto di scegliere, d’impegnarti e quello di lasciarti andare.
Questa brigata, questa ricca squadra di attori, ha scelto di mettere tanto in questo percorso teatrale e oggi se ne vedono i frutti, o meglio, i piatti. Perché si percepisce quanto impegno ci sia dietro ogni singola battuta e quanto sforzo nell’aver ritagliato dalle vite di ognuno, l’energia per creare qualcosa di bello.

Lo spettacolo finisce e la cosa più naturale è applaudire questo impegno e questa energia.
In questo dieci maggio, siamo stati a tavola e ci siamo divertiti. Siamo stati al ristorante ma anche a teatro. Siamo stati ovunque ma non in carcere. Perché il bello di progetti e di momenti come questo sta nella forza che hanno di non farti percepire le sbarre e le mura alte di cemento. Alla fine quello che ci metti ci trovi. E allora noi dobbiamo guardare oltre, un po’ più avanti, un po’ più in là, anche quando si spengono le luci e si smontano le scenografie. Accendiamo i fornelli e le vite, scaldiamo l’olio e le speranze, fiducia alla brigata e alla pluralità delle sue anime.