di Piombo / Dal 24 al 28 marzo si è svolta alla Dozza la terza “settimana della giustizia riparativa”. Nella mattina del secondo giorno è intervenuta la Dott.ssa Bonini, che tiene l’insegnamento di giustizia riparativa all’università di Pisa e che si è occupata in particolare di casi di violenza di genere. Ho partecipato all’incontro come redattore di Ne Vale la pena: ecco il mio servizio come inviato.
Come giostrano le emozioni nella giustizia riparativa e in quella penale? In due modi diversi, i quali rispondono a una diversa idea di giustizia. La giustizia penale risponde all’ingiustizia con altro male, a volte anche raddoppiandolo. La giustizia riparativa si muove invece in una prospettiva diversa, valutando le conseguenze che il male produce, tenendo conto di chi lo subisce e di chi lo crea, con l’obiettivo di una riparazione, di una ricerca del bene.
In antichità la punizione si associava molto spesso alla vendetta e questa eredità del passato condiziona ancora pesantemente il sentire comune rispetto alla pena; riparazione e riconciliazione, invece, richiamano un’idea di giustizia ben diversa. Nella giustizia penale si calcola il male fatto commisurandolo a una pena (mesi o anni). Nella giustizia riparativa, invece, si procede diversamente, mettendo in gioco le emozioni sia di chi commette il reato sia della vittima. Nei percorsi di giustizia riparativa, quindi, che necessitano di operatori specificamente formati, vittima e reo vengono seguiti e assistiti, attraverso un processo di mediazione, che non interagisce in alcun modo con il percorso processuale.
Un altro aspetto che viene affrontato è il senso della vergogna che il colpevole affronta con sé stesso e che è ben differente dal senso di colpa, il quale è circoscritto all’atto commesso. Se scoperto e portato alla luce, il senso di colpa si tramuta in vergogna investendo del tutto la persona interessata.
Tutto ciò come si interfaccia con la giustizia penale? Come già detto, il percorso della giustizia penale è pressoché unicamente punitivo e lascia poco spazio alla vergogna. Si entra in tribunale per essere giudicati, vi sono ruoli ben definiti e si innescano due tipi di reazione, una difensiva e una affermativa-passiva del reato, con un giudice che decide (dal latino de-caedere, ossia tagliare), e che, giudicando, applica al reo una sorta di etichetta (colpevole o innocente). Tutti, nel loro un ruolo, (reo, giudice, avvocati, etc), parlano e giudicano del male commesso in modo passivo, rimanendo attaccati al reato e all’ingiustizia fatta o subita. Nel procedimento penale, quindi, viene valutata la sola verità giudiziale e non vi è spazio per una vergogna positiva, perché tutto si ferma e si concentra solo sul male fatto o subito.
La giustizia riparativa invece dà spazio ad una vergogna positiva, senza sottrarsi a essa, ma affrontandola, mettendo in relazione le persone coinvolte, mediando tra esse, con uno sguardo non giudicante. Nel procedimento di mediazione, il mediatore non giudica, ma consiglia e aiuta le parti coinvolte a incontrarsi proprio a partire dai diversi vissuti. In tempi brevi si dovrebbe arrivare a una concreta applicazione dei percorsi di giustizia riparativa, anche in virtù dei 23 articoli del Codice Penale che la normano, nonostante vi siano ancora molte questioni da risolvere che ne rallentano l’attuazione.
Ad aprile dovrebbero prendere il via gli uffici di formazione dei mediatori pur nella consapevolezza che ad oggi sono pochi gli spazi in cui le due dimensioni della giustizia riescono a convivere, essendo due giustizie parallele che si incontrano solo in pochissimi casi, e per la maggior parte viaggiano senza incontrarsi mai.