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Una sensazione sconvolgente mi avvolge l’anima. Il pensiero che forse in carcere il cambiamento interiore di ognuno di noi non importa a nessuno, mi disturba la coscienza. Tutto questo disinteresse, l’indifferenza nei nostri confronti mi fa molto riflettere.
Inutili sono stati i vari tentativi che ho fatto per proseguire la mia pena lontano da queste mura. Nonostante ci siano normative studiate appositamente per far sì che un detenuto porti a compimento il suo percorso di riabilitazione con qualche misura alternativa al carcere, non tutti riescono a ottenere questa opportunità.
Vivo in questa incomunicabilità che potrei definire “trappola umana”. Preso atto che nessuno si preoccupa di me, ho studiato una strategia che mi permetterà, per lo meno in questi ultimi mesi che mi mancano per uscire, di vivere in uno stato mentale libero.

Dopo tanti anni di carcere vissuti all’inseguimento di un obiettivo e dopo aver constatato che è irraggiungibile, inevitabilmente subentra uno stato di profonda delusione. Guardi in faccia alla realtà e ti accorgi di far parte di un sistema complesso, dove il tuo essere e le tue aspirazioni valgono poco o niente. Quindi arrivi a una conclusione, e cioè che alla fine è meglio non soffrire più. È inutile cercare una spiegazione logica sul perché da questa “trappola umana” c’è chi esce prima e c’è chi non esce affatto. E’ difficile descrivere questa “trappola umana” e dare una visione concreta a ciò che vivo.

Proverò a spiegarlo a modo mio. Immagino il carcere come un corpo umano. Il polmone è la struttura, l’ambiente e il luogo dove viviamo e tutto sommato non ci possiamo lamentare perché è in buona salute. Il cervello è la Direzione, insieme a tutti i soggetti che la coadiuvano. Se si vive bene e il polmone è in buona salute, il merito è senz’altro da attribuire al lavoro svolto dal cervello. Infine c’è il cuore, parte vitale ed essenziale. Il cuore del carcere è diviso in due parti. Nel lato sinistro ci siamo noi, i cattivi, nella parte destra ci sono i buoni, che sono tutti i funzionari dello Stato che svolgono il loro ruolo nel sistema carcere. Diciamo che la parte più importante è proprio il lato sinistro, perché senza i cattivi il carcere chiuderebbe. Ma purtroppo è proprio la parte malata, che va sostenuta, mantenuta, rieducata, riabilitata a una nuova esistenza. Il compito di risanare il lato sinistro del cuore è in gran parte affidato agli educatori. È un incontro fra il cattivo e il buono, che insieme dovrebbero concordare un piano trattamentale che si dovrebbe presumere pensato nell’interesse del detenuto. Sembrerebbe facile, ma non è così. Non è facile comunicare con la parte buona, e quando ci riesci ti accorgi che forse non è servito a niente. Spesso rimane la sensazione di un dialogo perso nel nulla, anche se è l’ambito in cui sta la tua possibilità di libertà, perché il buono dovrà scrivere in una relazione i tuoi progressi nel percorso.

Ecco perché parlo di una “trappola umana”: se si viene affidati a un educatore che non prende a cuore il percorso da effettuare, è possibile che fino al fine pena non si concretizzi nessuna opportunità per scontare la pena fuori dalle mura.
Nell’attesa si resta bloccati nel sistema complesso, nella “trappola umana”. C’è il rischio d’impazzire parlando sempre delle stesse cose, o di diventare invidiosi l’uno dell’altro, quasi che l’uscita di un compagno di detenzione ci dispiacesse. C’è chi non ce la fa più e vorrebbe cambiare educatore, chi vorrebbe addirittura denunciare l’intero sistema. C’è chi si rivolge al garante dei detenuti, senza ottenere nessuna garanzia.

Chi ha vissuto queste disavventure e chi ha trascorso molti anni in carcere, può veramente comprendere il significato della frase “alla fine non si soffre neanche più”. Sinceramente in tutti questi anni di carcere non ho ancora capito se gli educatori sono dalla nostra parte e cioè se fanno di tutto per offrirci possibilità concrete di riscatto. Alcuni parlano del proprio educatore come se fosse un fratello, altri che quando lo incontrano sembra che abbiano visto la Madonna. Alcuni tornano dal colloquio come se avessero avuto un incontro ravvicinato del terzo tipo, borbottando chissà cosa e più confusi di prima.
Ma voglio sperare che anche in carcere si possa trovare il senso di umanità che dovrebbe regolare tutte le relazioni sociali. Non a caso ho voluto spiegare questa trappola umana paragonandola a un corpo umano e nello specifico a un cuore. Perché un cuore contiene tanti elementi e non importa se alcune volte sbaglia, non fa differenza se oggi ti trovi dalla parte buona, perché in fondo tutti siamo sulla stessa barca, seppur con ruoli diversi. È già importante riconoscere gli errori: in questo grande corpo umano si rischia di rimanere intrappolati nel conflitto fra due pensieri opposti, che però in realtà appartengono entrambi alla sfera umana e ci vedono, come persone, molto più vicini di quanto si possa pensare.
Dopo tutto parliamo di umanità e quindi anche gli assistenti, i magistrati e gli educatori possono sbagliare, e questo ci fa riflettere su quanto sia sottile la linea che ci divide. Cuore nero e cuore bianco, il bene e il male, i cattivi che si sottomettono ai buoni, trappola umana. Questo corpo è troppo complesso per me. È meglio restarne fuori, per quanto possibile, o meglio è più saggio non soffrire più.