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La frase su una maglietta di un amico privato anch’egli della libertà ha colpito la mia attenzione: c’era stampigliato “nessun uomo è un’isola”. E’ stato uno spunto per riflettere su quello che per il mondo carcere può rappresentare il cammino sinodale che la Chiesa sta intraprendendo.

Obiettivo della detenzione, purtroppo, alla luce dei fatti, fine velleitario, è che la persona detenuta cambi atteggiamenti, convinzioni, abitudini, scelte di vita; e acquisisca consapevolezza del disvalore sociale dell’azione delittuosa commessa, aderendo per il futuro a regole e valori positivi; intraprendendo anche percorsi per il risarcimento del danno provocato; ma come si realizzerebbe questo processo? Molti pensano che proprio l’afflizione derivante dalla pena possa provocare “pentimento”, e immaginano il carcere come luogo dove (giustamente) si soffre e al tempo stesso, come di conseguenza, si modificano credenze e valori.

Il male supremo per noi è la condanna alla solitudine, non quella scelta, ma quella indotta dall’isolamento detentivo, perché implica la massima sconnessione fra noi e gli altri, e quindi fra noi e noi stessi nel tempo, rendendoci stranieri a noi stessi e al nostro mondo comune e condiviso nella vita fuori. La nostra storia sfugge alla presa abituale, evapora, ci esclude, ci scomunica ed esiliandoci ci inchioda alla sorte della solitudine.

Da ciò deriva che durante la detenzione si attiva un circolo vizioso nell’ambito del quale le condotte delittuose trovano, per lo più, giustificazione e comprensione piena, perché avulse dal contesto sociale esterno, che potrebbe evidenziarne la negatività, in relazione ad uno schema di differenziazione morale e di coscienza civile. Il detenuto sanzionato con una pena che è di fatto privativa della presenza della società, difficilmente potrà maturare la consapevolezza del disvalore sociale dell’azione delittuosa, essendo obbligato ad una quotidianità livellata, uniformata e a un sistema di relazioni sociali che privilegiano, se non addirittura rendono esclusivo il rapporto con gli altri detenuti.

In assenza di relazioni autentiche, i rapporti all’interno del carcere si stabiliscono solo sulla base della natura del reato e della quantità della pena da espiare; in pratica la persona detenuta è socialmente il reato per il quale è stato condannato e la pena che deve scontare. Non è quindi quasi mai possibile costruire rapporti sociali autentici, ossia derivanti dall’autonomia decisionale, e da scelte consapevoli nell’ambito di possibili alternative. La comunità oltre muro si fonda sulla gerarchizzazione dei detenuti in base al criterio dell’”importanza ” dei reati e delle corrispondenti pene, provocando la conseguente e diffusa auto assoluzione nella comparazione con i reati più gravi. I detenuti più deboli vedono addirittura nella carcerazione una possibilità per essere finalmente qualcuno. In carcere si può millantare, si può essere un’altra persona, le interazioni sociali sono così artificiose e falsate che ci si può reinventare dal nulla una vita o un passato glorioso.

Ma allora a chi possiamo accompagnarci? Le scarse possibilità di contatto con la realtà sociale esterna, sono riservate quasi esclusivamente alla grande generosità e al dono della presenza dei volontari, che devono destreggiarsi tra la demotivazione che può derivare dall’essere spesso percepiti come intralcio e peso a chi presta servizio lavorativo nelle sezioni, e la coscienza civica che li rende impermeabili alle difficoltà spingendoli a continuare nella loro meritoria opera. Da persona detenuta posso senz’altro dire che il ruolo tanto del volontariato laico che di quello religioso è fondamentale negli istituti di pena, proprio per mantenere vivo il contatto con il mondo esterno e con modelli sociali e morali diversi, che possano aiutarci a riflettere sulle scelte del “prima”.

L’eliminazione di qualsiasi pregiudizio, la possibilità di svincolarsi dall’identificazione generica con la categoria “detenuto”, il toccare con mano che si esiste anche senza essere incasellati come un tassello nel mondo della detenzione ci fa di nuovo assaporare la sensazione che la vita può essere anche una festa! Ecco quello che anche Gesù ha testimoniato, e che desideriamo che la Chiesa realizzi nel cammino sinodale.