di Filippo Milazzo / Gli ultimi anni hanno chiaramente mostrato che il carcere e la sua popolazione sono radicalmente cambiati. In passato l’ambiente detentivo era più rigido, ma al tempo stesso era permeato da un maggior rispetto tra i detenuti.
Ricordo, infatti, che quando in sezione arrivava un nuovo “ospite” tutti cercavano di accoglierlo al meglio offrendogli un caffè o invitandolo a cena. Oggi questo non succede quasi mai. È cambiata la mentalità delle persone recluse, che adesso perlopiù pensano egoisticamente solo a sè stesse, a meno che chi arriva non sia un amico o un “paesano”. Oggi, se entri in carcere per la prima volta, devi arrangiarti con quello che l’Amministrazione Penitenziaria può offrire e, cioè, con il vitto del carrello e con la dotazione igienica obbligatoria. Pochi correranno in soccorso con l’anticipo di tabacchi e generi alimentari.
Diversamente, chi ha famiglia potrà, al primo colloquio, beneficiare del vestiario e dei generi alimentari. Al contrario, la persona straniera o lontana dal paese d’origine dovrà avvalersi necessariamente dell’apporto del volontariato carcerario.
La nostalgia del passato, allora, mi torna frequentemente a mente: ricordo le firme richieste all’intera sezione per l’accettazione del nuovo arrivato, la condivisione dell’ordine di arresto affinché fosse noto a tutti il reato commesso e la mitologica figura del rappresentante di sezione. Egli era individuato tra i detenuti residenti nel comprensorio ove era allocato il carcere sulla base di carisma, lignaggio criminale e possibilità economiche, e veniva coadiuvato nelle proprie attività da referenti espressione delle diverse regioni. A questi soggetti era demandato il compito di provvedere alle necessità, di dirimere le controversie che eventualmente potevano sorgere e di garantire il rispetto delle regole della convivenza forzata cui il carcere costringe. Regole non scritte, ma usi e consuetudini che dovevano in qualche modo consentire una tranquilla coesistenza.
Erano loro che informavano sul rispetto di regole e comportamenti in uso nelle diverse sezioni, al fine di garantire che la socialità imposta risultasse sopportabile e garantisse la dignità all’interno dell’istituto, ed erano loro che ne verificavano il rispetto senza l’intervento degli agenti di polizia penitenziaria. Per questo motivo nell’ora d’aria i detenuti vestivano garantendo il decoro e si evitava – come attualmente spesso capita – di assistere a sfoggio di pantaloncini indossati a mo’ di perizoma e petti nudi che camminano in sezione. In caso di eventi luttuosi che coinvolgevano direttamente o indirettamente i compagni detenuti si spegnevano le televisioni per alcuni minuti e successivamente si tenevano al minimo del volume.
La garanzia dell’ordine e della sicurezza tra i detenuti era, d’altra parte, riconosciuta dall’Amministrazione con la concessione di qualche beneficio nei confronti di detenuti che vivevano in una situazione di maggior disagio economico.
Oggi, invece, vuoi per la concessione della liberazione anticipata per buona condotta, vuoi perché il lavoro in carcere è stato riconsiderato non già parte di un percorso risocializzante, bensì come mezzo necessario al mantenimento economico, l’egoismo del detenuto arriva al punto di cercare uno spazio a discapito degli altri, fino a costruire vere e proprie “biciclette” nella logica di screditare il compagno. Mors tua, vita mea sembra orientare come motto il comportamento di molti.
Allora, per quanto mi riguarda e per quel che è il comune sentire di molti che hanno vissuto tanti anni in carcere, è meglio il rispetto delle regole piuttosto che l’anarchia: sicuramente si stava meglio quando si stava peggio, secondo un vecchio adagio popolare.
In più, se pensassimo al carcere privo del fondamentale contributo dei volontari ci renderemmo conto che lo stesso è incapace di far fronte finanche ai bisogni primari dei detenuti, soprattutto stranieri. Loro, infatti, come anche i cittadini italiani che vivono uno stato di marginalità sociale o che sono lontani dalla propria famiglia e dai propri affetti, hanno nel volontariato l’unico supporto sul quale possono contare, anche se solo per il vestiario e per una parola di conforto.