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La redazione di Ne vale la pena ha intervistato Nadialina Assueri, coordinatrice assistenziale dell’Ausl di Bologna.

Dottoressa Assueri, qual è il suo ruolo in carcere?
Oltre a coordinare le professioni sanitarie presenti sia nel carcere minorile “Pratello” che nella Casa Circondariale “Rocco d’Amato” di Bologna (operatori socio sanitari, infermieri, terapisti dell’area psichiatrica, educatori professionali), mi occupo di migranti in prima accoglienza e in situazioni di fragilità e delle persone senza fissa dimora.

Cosa ne pensa del trasferimento dell’assistenza sanitaria in carcere dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale e quindi a Regioni e Asl?
Con il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 aprile 2008 la funzione sanitaria passa dal ministero della giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Viene riorganizzata l’assistenza sanitaria con l’obiettivo di garantire la Salute ai cittadini reclusi in un ottica di equità come a tutti i cittadini. Ci sono state molte difficoltà perché l’organizzazione dell’assistenza doveva tenere conto dei vincoli del sistema carcerario.
Facciamo alcuni esempi. È stata riorganizzata la gestione della terapia, prima si preparava la terapia per tre giorni e chi preparava non era chi consegnava la terapia. Adesso il professionista infermiere ha la responsabilità del processo della gestione della terapia dalla preparazione alla consegna.
Altro esempio è l’organizzazione dei servizi sanitari interni che devono essere organizzati tenendo presente gli orari e le attività di vita del carcere (apertura delle celle per la socialità, la scuola/università, i colloqui con i familiari e con i magistrati/avvocati…).
Alla domanda “Cosa ne penso di questo intervento normativo?”, credo che sia stata una riforma giusta che vuole tendere all’equità, perché la salute non è più gestita dal ministero della giustizia ma dal Ministero della Salute, e quindi la salute è fuori dal percorso di giustizia della persona.

Quali sono le principali difficoltà riscontrate sul lavoro?
Il lavoro consiste in una continua riorganizzazione per migliorare il servizio sanitario tendendo a raggiungere l’equità rispetto ai cittadini esterni: se un detenuto ha un infarto deve poter contare sugli stessi tempi di risposta dei cittadini esterni.
Il decreto legislativo 22 giugno 1999, n. 230 (art. 1) afferma che i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari diritto dei cittadini in libertà, all’erogazione di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, ma è realmente così?
Il carcere ha molti ostacoli organizzativi legati alle regole e ai vincoli della sicurezza. Dopo la rivolta, che ha distrutto l’area specialistica interna stiamo per terminare la ristrutturazione e l’obiettivo è implementare le consulenze specialistiche e gli esami strumentali interni anche con l’ausilio della telemedicina, per abbattere le liste di attesa. Si sta acquistando una nuova strumentazione clinica per ripristinare quella distrutta. Ricordo infine che in carcere l’assistenza sanitaria è gratuita con l’esenzione totale dei ticket.

Per rendere il lavoro più agevole, il personale sanitario si deve confrontare con gli agenti penitenziari?
Deve assolutamente esistere una collaborazione tra personale sanitario e agenti penitenziari. Sulla base dell’esperienza personale posso testimoniare che ciò esiste. È necessaria proprio per poter migliorare e fare funzionare i servizi (ad esempio l’accompagnamento alle visite esterne) e la gestione degli ambulatori interni. Rimane il vincolo della riservatezza dei dati sanitari, che sono gestiti solo dagli operatori sanitari.

Come vengono gestiti i farmaci all’interno del carcere? Come vengono affrontate le problematiche in merito ai tossicodipendenti e ai malati psichiatrici?
Prima dello scoppio della rivolta l’infermiere preparava la terapia da somministrare davanti alla cella. A seguito della rivolta, dove sono stati rubati psicofarmaci in quantità, mettendo a rischio la salute e a volte la vita dei detenuti che hanno saccheggiato gli ambulatori delle sezioni, è stato necessario non lasciare negli ambulatori dei piani psicofarmaci e farmaci pericolosi. Ora la terapia viene preparata in area sanitaria e portata in sezione solo al momento della consegna/somministrazione, già in bustine.
In carcere i farmaci vengono forniti dalla farmacia dell’ospedale presente sul territorio. Alle persone ristrette vengono garantiti farmaci di fascia A, e il materiale da medicare al pari di un reparto ospedaliero.
Per quanto riguarda i detenuti che abusano di sostanze o hanno una dipendenza patologica, è presente il Servizio Dipendenze Patologiche e la psichiatria interna, la persona viene presa in carico e vengono garantite tutte le terapie necessarie. Il servizio di psichiatria interna è presente dal lunedì al sabato e ha in carico le persone con disturbi psichiatrici.

A quali controlli sanitari viene sottoposto il nuovo giunto?
Con l’avvento del Covid, il nuovo giunto all’ingresso viene posto in isolamento dalla restante popolazione detenuta e dopo 5 giorni sottoposto al tampone molecolare, durante questo isolamento viene sottoposto anche allo screening per la TBC e a esami ematici per valutare lo stato di salute.
Se la persona detenuta dichiara al momento dell’ingresso di fare uso di droghe, verrà sottoposto ad analisi di laboratorio per accertare la condizione dichiarata. In caso di esito positivo, dopo colloquio con il medico del SerT può avere la certificazione di tossicodipendenza e inizierà un percorso di riabilitazione.

Con quale criterio decidete che le condizioni fisiche di una persona malata siano compatibili o meno con la reclusione?
La Regione Emilia Romagna ha stabilito che questa decisione spetta a una Commissione medica, composta da un medico legale e un medico interno che valuta le condizioni di salute della persona.

Qual è la situazione dell’organico del personale medico?
La carenza di personale medico è, per svariate ragioni, marcata all’interno delle carceri. Stiamo cercando di motivare i medici a entrare in questa realtà. Nel carcere bolognese, attualmente, sono presenti 5 medici a tempo pieno e medici specializzandi in servizio solo di notte e nei weekend.

Lei ha ricevuto l’onorificenza di Cavaliere del lavoro per l’impegno a garantire l’assistenza sanitaria all’interno del carcere Dozza durante il periodo della rivolta del marzo 2020. Si aspettava un riscontro simile? Ha cambiato qualcosa per lei?
No, è stata una sorpresa. Ci tengo a sottolineare che tutto ciò è stato possibile grazie alla collaborazione di tanti operatori rimasti dentro, per cui questa onorificenza non è soltanto mia ma di tutti gli operatori del carcere. Una cosa che mi preme sottolineare è che, grazie a questa onorificenza, si è parlato di cosa succede all’interno di queste mura. Ho avuto occasione di poter parlare del carcere e della salute delle persone in carcere, inoltre sono stata sollecitata a impegnarmi politicamente a livello della città per le persone che assisto che sono ai margini e poco conosciute ma che hanno molti bisogni e necessità di interventi sociali e sanitari in un ottica di equità.