Trieste e la rotta balcanica/ Le ombre dimenticate in piazza del mondo
di Rachele Velletri/ Arriviamo nel pomeriggio in via Emo Trabochia 3, sede di Rifondazione Comunista a Trieste. È un palazzo antico con un grande ingresso su cui pende la bandiera del partito. L’interno sembra una piccola enclave rossa nel centro città: difficile farsi strada tra i tavoli colmi di libri che, poggiati ai muri, rendono il percorso obbligato. I titoli vanno dal laico romanzo “Nessuno mi crede” di Molly Katz alla laicissima biografia illustrata di Enrico Berlinguer con la prefazione di Sandro Pertini. Fra tutti i poster che scendono dalle pareti, torreggia il viso di Che Guevara col basco calato sul capo e lo sguardo all’orizzonte.
Ci accoglie qui Gian Andrea Franchi, già professore di storia e filosofia, oggi ottantasettenne e figlio del Sessantotto. Con un passato di militanza in Lotta Continua e Autonomia Operaia, il suo sguardo conserva quella tenacia, e mentre ci racconta il suo presente non risparmia qualche nostalgico riferimento all’atmosfera appassionata della sinistra radicale di un tempo. Oggi è volontario e fondatore, assieme alla moglie Lorena Fornasir, dell’associazione Linea d’Ombra che si occupa di accogliere e permettere il cammino dei migranti in transito della rotta balcanica. Ogni sera da tre anni la piazza antistante alla Stazione Centrale diviene una vera “piazza del Mondo”, un luogo di incontro dove Franchi,
Fornasir e altri cinque volontari nutrono, vestono e calzano i migranti. Col passare del tempo, attorno a loro si è formata una rete di aiuti da parte di altre associazioni o realtà di volontariato che li coadiuva nel rifornimento dei materiali necessari al primo soccorso, dell’abbigliamento, delle calzature e del cibo.
L’impegno dei due fondatori dell’associazione ha inizio nel 2015 a Pordenone. Le barriere culturali e linguistiche appaiono immediatamente forti e in apparenza invalicabili. Lorena Fornasir trova dunque un modo per abbattere questa barriera di incomunicabilità tramite il contatto con il corpo: un telo di alluminio steso su una panchina, scatole che contengono diversi medicinali e unguenti, infine il suo tocco gentile ed esperto nella cura dei piedi martoriati dei camminanti. Questo è un gesto di cura che ha a che fare più con la profondità emotiva di una madre che con la tecnica dell’ospedale, secondo Franchi. Nella sua visione l’atto di cura è anche un atto politico: laddove lo Stato e la città si disinteressano al fenomeno migratorio – specialmente quello che coinvolge i migranti in transito – Franchi propone l’uso di strumenti diversi da quelli più comuni del linguaggio, della lotta e dell’organizzazione, la cui importanza comunque non nega. “Resistenza, lotta e cura”, queste le tre parole chiave di cui si fa portavoce Franchi. La sua è una filosofia politica che fa del corpo del migrante una voce soggettiva, importante perché nella sua tangibilità reca una storia politica e sociale, che informa di una continua negazione di soggettività giuridica e, dunque, di umanità.
È, questa, un’umanità volutamente dimenticata. Franchi alza le spalle con impotente rassegnazione nel dichiarare che la città di Trieste e le sue istituzioni fanno finta di non vedere i migranti. Ciò accade perché circa l’80% dei camminanti che arriva in città è in transito, in genere alla volta di Francia e Germania. Basta munirsi di biglietto e la polizia italiana si benda gli occhi in un tacito lasciapassare. L’estate del 2023 ha visto un sovraffollamento dei centri di accoglienza triestini, e la mancanza di rotazione ha costretto 600 persone tra richiedenti asilo e transitanti ad ammassarsi nel Silos, luogo fatiscente e dannoso per la salute, vista l’infestazione di topi. La città non dà risposte, lo Stato italiano grida all’emergenza in un rimbalzo di responsabilità con l’Europa. Nel frattempo nel Silos di Trieste c’è un’umanità dimenticata e violata nei suoi diritti fondamentali.
L’obiettivo di Linea d’Ombra non è quello di favorire l’integrazione, non perché non sia auspicabile ma perché, secondo Franchi, non è possibile. “L’Europa è strutturalmente razzista”, dichiara. Nella sua ottica, la matrice genocida del Vecchio Continente si accompagna ad una struttura economica basata su una divisione in classi che ha come discrimine la ricchezza.
Il compito che l’associazione percepisce come vitale è, dunque, quello di creare una rete europea che renda possibile seguire i migranti nei loro spostamenti, e così aiutarli a uscire dall’ombra – fisica e metaforica – cui sono costretti. È l’ombra di un cammino fatto di violenza, torture e umiliazione a causa dei numerosi respingimenti delle polizie più dure, quella ungherese e quella croata. È l’ombra dei gorghi del fiume Una a Bihac, in Bosnia, che miete numerose vittime. L’ombra della fame, della sete e delle privazioni. L’ombra dei boschi al confine tra Bosnia e Croazia, nel tentativo di vincere il game. Il gioco: è così che chiamano il tentativo di attraversare il confine.
Molti sono i morti dimenticati della rotta balcanica, moltissimi coloro che recano ferite visibili sul corpo. Ma c’è anche la ferita dell’anima, invisibile agli occhi, che forse è ancora più dolorosa. Linea d’Ombra tenta dunque di costruire un luogo sociale e solidale tramite la cura fisica in una dimensione del “consistere”, come specifica Franchi, “è uno stare lì in una situazione umana, non è una dimensione del fare a tutti i costi”. E in piazza del Mondo, d’altra parte, la panchina con la coperta isotermica, le pentole col cibo, e le voci che si levano ogni sera sono il segno che la dimensione del fare può trovare un felice connubio con quella, umanissima, del consistere insieme.