Scuola del non obbligo

di Alex Frongia/ Durante la mia carcerazione ho avuto l’onere e l’onore di frequentare la scuola superiore. In questi anni ho avuto la possibilità di confrontarmi con numerosi insegnanti, con molti compagni e ho avuto l’occasione di apprendere nuove nozioni. L’iscrizione a scuola è stata del tutto volontaria, in quanto nessuno ti obbliga a frequentarla.

Nel percorso di trattamento sono poche le attività a disposizione del detenuto ed è ben noto che la cultura non sempre paga. Infatti in carcere la popolazione detenuta preferisce fare dei corsi o delle attività lavorative remunerative, piuttosto che dedicarsi all’istruzione che non ti offre un compenso mensile. Però ti arricchisce come persona e accresce il tuo livello culturale con titoli spendibili un domani nella società.
Per via del precariato, che colpisce il ministero dell’istruzione, anche la scuola in carcere soffre l’obbligato turn over che gli insegnanti e di conseguenza gli studenti sono destinati a subire.

Il detenuto-studente ha bisogno di creare con il proprio insegnante un legame di fiducia, un rapporto di affetto, di stima e di sincerità. Da lì inizia la magia dell’insegnamento e dell’apprendimento delle varie materie. Purtroppo quando finisce l’anno scolastico ci si saluta con tristezza, sapendo già che il nuovo anno scolastico cambierà quasi interamente lo staff dei professori. L’anno successivo sarà da creare, da ricostruire, da reinventare. L’arrivo dei nuovi insegnanti è spesso un momento traumatico, soprattutto all’inizio dell’anno.

I pregiudizi sul carcere e verso le persone che ci vivono sono tanti, e questo condiziona la società e chi ne fa parte. Non è facile vedere una professoressa bardata fino al collo nel mese di ottobre, quando ancora le temperature sono alte, e non sentirsi a disagio. Vedere i suoi occhi stupiti nel constatare che siamo tutti vestiti diversi e non con il completo a righe. Nel sentirci parlare di cucina, o di sport, sì proprio come le persone normali, perché lo siamo, siamo persone normali.
Quando questi timori iniziali vengono superati arrivano i risultati, e a fine anno quando ci si saluta, scappa anche qualche lacrima.
Perché alla fine anche in questo brutto posto c’è del buono e ci si vorrebbe continuare a vedere, ma le sbarre dividono e non uniscono. Ed ora che sono arrivato alla fine, provo sensazioni miste: quella della felicità per aver raggiunto l’obiettivo, e quella della tristezza per non poter più vivere quello che di bello ho trascorso in questi anni a scuola.
L’unica cosa che posso fare è portare con me il ricordo e la gratitudine per quegli insegnanti che hanno creduto in me come studente, come persona e non come detenuto.