Quale reinserimento per i detenuti stranieri?
di Fabrizio Pomes/È noto come il carcere sia un contenitore di marginalità sociale. Il termine “marginalità” in Italia, almeno a partire dagli anni Novanta, può essere ricondotto a tre macro categorie: soggetti stranieri, tossicodipendenti e persone affette da varie forme di disagio, spesso psichico, sociale o relazionale: sono dimensioni che immediatamente appaiono agli occhi degli operatori e degli osservatori delle prigioni.
La categoria che ha assunto più efficacemente il ruolo di “classe pericolosa” nell’immaginario collettivo è tuttavia il migrante. Da più parti si è stigmatizzata la criminalizzazione operata sia sul piano delle politiche penali sia su quello culturale. Altri hanno rilevato una maggiore devianza tra gli immigrati e hanno suggerito l’idea di una inevitabile criminalizzazione degli stessi, in quanto ritenuti autori di reato con maggiore frequenza rispetto agli italiani. Anche questa tesi è stata confutata obiettando come lo straniero sia generalmente sottoposto a un maggiore controllo di polizia e risulti fortemente svantaggiato nel momento in cui deve confrontarsi nel giudizio penale o in quello per la concessione di misure alternative.
Riflettiamo allora su come l’universo penitenziario italiano dagli anni Novanta sia stato letteralmente stravolto dal progressivo e inarrestabile aumento di detenuti stranieri. A tale aumento progressivo del numero totale di detenuti migranti occorre aggiungere l’ineguale distribuzione sul territorio.
La grande maggioranza delle persone straniere si concentra nelle grandi città del nord Italia: di conseguenza, le carceri metropolitane del settentrione mostrano spesso percentuali di detenuti non italiani che superano il 50%, con un impatto che coinvolge e condizione la cultura carceraria di molte realtà detentive. È infatti ampiamente diffusa l’idea secondo la quale il carcere attuale, popolato in larga parte da stranieri e sovraffollato, abbia prodotto uno stravolgimento delle relazioni all’interno della comunità penitenziaria. La realtà che si è determinata ha indotto la necessità di una reinterpretazione della normativa dell’esecuzione penale, considerata inapplicabile per soggetti la cui prospettiva a fine pena non è il reinserimento sociale, bensì l’espulsione.
Ecco quindi come larga parte dell’attuale impianto normativo, fondato su un percorso in base al quale il condannato meritevole dovrebbe giungere alla concessione di permessi premio e, infine, di misure alternative al carcere, è di fatto inapplicabile per un’ampia fascia della popolazione detenuta. Tale inapplicabilità non è direttamente dovuta a preclusioni normative, quanto a un senso comune condiviso in base al quale lo straniero privo di permesso di soggiorno, in quanto destinato all’espulsione, è ritenuto inaffidabile. Di conseguenza, ogni possibile ampliamento della libertà è negato, in quanto potrebbe potenzialmente produrre un rischio di fuga del condannato.
Ma anche all’interno della realtà detentiva questa dinamica ha provocato una riorganizzazione degli elementi fondamentali della quotidianità detentiva: il tempo, lo spazio e il lavoro.
Il mutamento delle relazioni penitenziarie ha infatti prodotto un impatto sulle prassi organizzative all’interno degli istituti, le quali cessano di avere come obiettivo la risocializzazione del condannato a favore del suo contenimento tramite il moltiplicarsi di attività non finalizzate ad un futuro al di fuori delle prigioni. Le attività organizzate, in questo senso, paiono piuttosto finalizzate a garantire un reddito immediato di sussistenza, quando non, in alcuni casi, al mero intrattenimento della persona.
Inoltre l’aumento esponenziale dei detenuti extracomunitari ha di fatto aggravato l’atavico problema del sovraffollamento carcerario, di cui si parla molto e al quale si riconducono i molteplici problemi insiti nel nostro sistema penitenziario.
Le condanne penali definitive dei detenuti extracomunitari privi di regolare permesso di soggiorno in gran parte dei casi prevedono “l’espulsione a fine pena”; la domanda, quindi, sorge spontanea, e non posso esimermi dal formularla come ignorante: è più utile provare a curare la cancrena o è meglio pensare a soluzioni radicali che eliminino definitivamente il problema?
Da ignorante quale sono, sicuro di essere subito smentito dalle riflessioni giuridiche di chi è più competente di me, mi permetto anche di proporre una soluzione fin troppo semplice e forse per questo inattuabile. Mi chiedo come mai il governo italiano, sempre impegnato nella ricerca di accordi internazionali, non si sia mai posto il problema di stabilire accordi bilaterali con i paesi da cui provengono gli immigrati per garantire la detenzione nella loro nazione di origine. Appare infatti quasi inspiegabile che il governo italiano impieghi risorse ed oberi di lavoro le figure professionali già numericamente sottostimate per la rieducazione e risocializzazione di persone che a fine pena dovranno comunque abbandonare l’Italia.
Basterebbe che i giudici stabilissero l’espulsione al momento in cui la condanna diviene definitiva e che l’espulsione, contrariamente a quanto avviene nell’attuale prassi, fosse immediatamente eseguita. Per accreditare questa mia tesi forse peregrina potrei far leva anche su pure e semplici ragioni di carattere economico: stimolare infatti l’interlocutore poco informato con argomentazioni pragmatiche e materiali come il “portafoglio” può risultare molto più efficace che discutere dei massimi sistemi.
La domande sono queste: a fronte dell’enorme esborso economico sostenuto per il mantenimento in carcere per anni di chi a fine pena dovrà essere espulso possiamo dire che abbiamo raggiunto l’obiettivo prefissato? Possiamo dire con assoluta certezza che abbiamo raggiunto un maggiore benessere sociale, un’accresciuta sicurezza collettiva o una riduzione dell’illegalità? E se invece le risorse venissero investite per colmare la carenza di funzionari giuridico – pedagogici, di psicologi e psichiatri, di medici e infermieri, per implementare la presa in carico dell’individuo e la costruzione di un percorso ad hoc basato sulla sua storia e le sue esigenze, e per la progettazione di nuove attività?