Il lutto dentro il carcere: come la libertà cambia il dolore
di Fabrizio Pomes/Porto dentro due dolori che non si somigliano, ma che hanno inciso la stessa cicatrice nel mio cuore. Il primo è arrivato quando ero in carcere: mia cugina Barbara, giovanissima, se n’è andata all’improvviso. Lei era più di una parente: era un pezzo della mia infanzia, la mia confidente, la mia risata nei giorni bui.
La notizia mi è arrivata come un pugno nello stomaco durante un incontro della redazione di giornalismo dalla funzionaria giuridica Angela Bucci.
Il lutto è un terremoto silenzioso che scuote l’anima. Ma quando arriva mentre si è privati
della libertà, il dolore cambia forma, colore e respiro. In carcere, la morte di una persona
cara non è solo un vuoto: è un vuoto che rimbomba tra le mura fredde, amplificato dall’eco
dei cancelli che si chiudono.
In cella, il tempo non scorre, si trascina. Le brutte notizie arrivano spesso in modo brusco, in
un colloquio con un educatore come nel mio caso o in una telefonata concessa d’urgenza.
Non c’è un abbraccio immediato, non c’è il calore di una mano che stringe la tua. Il dolore
diventa un segreto da custodire tra quattro pareti, condiviso solo con compagni di
detenzione che, pur solidali, non possono sostituire la famiglia.
Il funerale, se e quando concesso, è una parentesi sorvegliata: catene invisibili che ti ricordano che sei lì “in prestito” e che presto tornerai alla tua cella. E quando la bara si allontana, tu non puoi seguirla: resti fermo, con il cuore che corre e il corpo che resta prigioniero.
Il secondo lutto è arrivato quando ero in affidamento esterno: mio padre. Questa volta ero
fuori, ma non libero. Chi sconta la pena fuori dal carcere, in affidamento o in altre misure
alternative, vive il lutto in un’altra dimensione. Può essere presente, può stringere mani e
ricevere abbracci, può piangere accanto ai propri cari. Ma anche qui la libertà è
condizionata: orari, obblighi, controlli. Il dolore è lo stesso, ma può respirare: può trovare
conforto negli sguardi, nei ricordi condivisi, nei silenzi che non hanno bisogno di spiegazioni.
Eppure, anche in questa condizione, c’è un’ombra: la consapevolezza che la propria vita è
ancora sospesa, che ogni gesto è osservato, che la ferita deve rimarginarsi sotto lo sguardo
vigile dello Stato.
Il lutto non fa sconti: colpisce con la stessa forza chi è libero e chi non lo è. Ma la possibilità
di viverlo insieme agli altri, di attraversarlo con la vicinanza fisica e affettiva, cambia tutto. In
carcere, il dolore è un urlo soffocato. Fuori, anche se sotto controllo, può diventare un pianto
condiviso. Due dolori, due prigioni: una fatta di ferro e cemento, l’altra di regole e controlli. E
in entrambi i casi, resta la stessa verità: la perdita non si misura in metri di libertà, ma nella
profondità dell’amore che ci legava a chi non c’è più. Il lutto, quello vero, non conosce sbarre
né libertà condizionata. Ti abita dentro, e ti accompagna ovunque, ricordandoti che certe
assenze non si colmano mai.