La discrezionalità nel mondo carcerario
di Giulio Lolli/Dall’esperienza maturata nel doppio ruolo di ristretto e studioso del mondo carcerario, ho constatato che è stata più volte causa di suicidio, autolesionismo e risentimento contro le istituzioni la totale discrezionalità che la legislazione prevede a Magistrati di sorveglianza, educatori e direttori delle carceri.
Se è vero che la Magistratura di sorveglianza è l’organo che dispone dell’enorme potere in merito a
quando e se concedere l’accesso alle misure alternative al carcere e ai benefici, le figure dell’educatore e del direttore possono influenzare queste scelte. Una delle principali funzioni dell’educatore, infatti, è quella di redigere una relazione di sintesi sul percorso del detenuto, la quale si basa su complicate valutazioni riferite alla personalità, ai reati commessi, allo stato del processo rieducativo e al rischio di recidiva del soggetto esaminato. In questi documenti la prima cosa che risalta agli occhi sono le incertezze nel prendere decisioni mostrate da alcuni educatori dovute alla paura di un eventuale fallimento della misura richiesta, un insuccesso che coinvolge direttamente oltre che il detenuto, gli stessi operatori del trattamento. Inoltre, raramente i pareri sono radicalmente positivi e si viene spesso etichettati principalmente attraverso il reato commesso e i risvolti negativi della propria personalità (su cui è giustissimo soffermarsi per una profonda revisione), evitando quegli aspetti buoni, positivi e generosi che sono presenti in ogni essere umano, quando, invece, essi dovrebbero essere il fulcro su cui costruire il proprio futuro.
Pregiudizi
L’essere stato collocato nel novero dei cosiddetti colletti bianchi ha comportato per chi scrive
l’aprioristica bollatura di essere una persona che non ha attenzione per gli altri, anche a costo di
chiudere gli occhi di fronte ai fatti, riportati dettagliatamente anche dalle Motivazioni delle sentenze, ovvero che nel passato il sottoscritto ha rischiato ripetutamente la propria vita per salvare quella degli altri, ha pagato dipendenti, fornitori e imposte fino all’ultimo momento possibile e, nel presente, sta dando supporto a tutti quei detenuti, spesso stranieri, che necessitano di spiegazioni giuridiche, traduzioni, istanze, ricorsi e domandine. Lavori che un tempo venivano svolti dallo scrivano, una figura che l’Amministrazione Penitenziaria ha, arbitrariamente quanto illogicamente, abolito.
Intendiamoci, l’esperienza in diversi istituti italiani ed esteri mi permette di confermare che è molto meglio essere rinchiusi in un carcere dove educatori, criminologi e relazioni di sintesi esistono.
Tuttavia, questi documenti delicatissimi richiederebbero da parte degli educatori meno pregiudizi e pretesti e più coraggio, trasparenza (anche per far capire al ristretto che la relazione di sintesi non sarebbe soltanto un fine per uscire dal carcere ma un mezzo per migliorare se stessi) e, soprattutto, un rapporto con i detenuti che le scarsissime risorse messe a disposizione dall’AP non consentono. Vorrei ricordare a tutti che vengono destinati ad educatori e criminologi meno del 3% dei 3 miliardi e 300 milioni che il Ministero della Giustizia spende annualmente per l’AP, contro più del 60% destinato agli agenti penitenziari. Un dato che dimostra che, oltre al sovraffollamento dei detenuti, esiste anche un desolato sottoaffollamento di quelle figure che, di fatto, dovrebbero consentire l’applicazione pratica dell’art. 27 della Costituzione.
Ogni carcere è diverso
Tornando alla questione della discrezionalità è importante sottolineare che ogni carcere ha una sua anima, la quale dipende in principal modo dall’indirizzo dato del direttore e la quale può influire sul processo decisionale degli educatori e, conseguentemente, incidere in maniera significativa sul percorso della persona che vi si trova reclusa. Il sottoscritto è stato rinchiuso per 25 mesi nell’infernale carcere libico di Mitiga diretto Osama Njim Al Masri – recentemente liberato dal Governo italiano nonostante un imputazione per crimini contro l’umanità formulata dalla Corte Penale Internazionale, presso la quale sono stato chiamato come teste chiave anche per i crimini compiuti da altri 5 ex alti ufficiali libici) – e 35 mesi nell’italianissimo sottocircuito Alta Sicurezza 2 degli istituti di Rossano Calabro e Ferrara: 5 anni di imprigionamenti disumani causati univocamente da tre imputazioni relative al terrorismo islamista dalle quali sono poi stato assolto perché il fatto non sussiste, con sentenza definitiva. Un’esperienza che mi ha anche permesso di appurare sia quanto le procure italiane siano influenzate dall’operato, spesso strumentale quanto maldestro, dei servizi segreti, e sia quanto il motto la legge è uguale per tutti rappresenti un’immane ipocrisia. Anche durante l’esecuzione penale. I sottocircuiti AS sono stati istituiti con il compito di gestire i detenuti di spiccata pericolosità mantenendo però, come recita la Circolare DAP 3619, “le medesime garanzie di opportunità trattamentali”. L’ennesimo enunciato di natura costituzionale che l’Amministrazione penitenziaria contraddittoriamente, quanto arbitrariamente, dispone e disattende. Nei quasi tre anni in cui sono stato ingiustamente ristretto in AS2, non ho mai visto per i miei sfortunati compagni di sezione, quasi tutti definitivi, un benché minimo accenno di opportunità trattamentali.
Una lettera che fa la differenza
Stabilito che per una parte dei ristretti italiani l’art. 27 della Costituzione non esiste e che un carcere con un’anima più dura offre meno opportunità di quello con un’anima più progressista, accade spesso che anche all’interno dello stesso carcere ci possano essere casi di persone ristrette per il medesimo reato, con un percorso similare e un parere espresso dalla direzione identico, in cui alcuni godono di permessi premio e benefici e altri no. E questo solamente in relazione alla lettera iniziale del proprio cognome. Ha scritto Ornella Favero, la storica fondatrice e direttrice di Ristretti Orizzonti, che la lettera dell’alfabeto del proprio cognome può essere una disgrazia o una fortuna, perché determina il magistrato che ha la competenza sulla persona detenuta. Queste parole, espresse da una persona che ha dedicato la vita al mondo del carcere, sono indicative di quanto grave e diffuso sia il problema della discrezionalità.
Di fronte a quanto sopracitato, il mio primo pensiero sarebbe quello di trovare una soluzione che
preveda anche degli automatismi, i quali potrebbero superare anche il gravoso problema della lentezza delle risposte. Per un permesso premio di poche ore vengono spesi mesi per esaminare la pratica e mesi per ragionarci sopra, quando in realtà esso rappresenta un beneficio che prima o poi tutti dovrebbero ottenere.
Esempi
Il sottoscritto si trova ad aver superato ampiamente metà pena (e vicino anche ai termini per
l’affidamento) senza aver mai beneficiato di un permesso premio, nonostante il parere positivo al
trattamento extra-murario della Direzione e un percorso definito dalla stessa area educativa “corretto, autentico e rispettoso delle regole, dei compagni di detenzione e degli operatori”.
Molti mi dicono di essere ossessionato da Al Masri (e sarebbe strano se non lo fossi visto che sono
stato da lui torturato per 25 mesi nell’indifferenza consolare, mediatica e delle associazioni dei diritti umani), tuttavia, non posso non ricordare che per questo psicopatico ricercato Interpol su ordine della Corte Penale Internazionale, il più alto organismo giudiziario italiano, il nostro Ministero della Giustizia, ha, molto discrezionalmente, disposto la sua libertà in due giorni: 251 volte più rapidamente del tempo impiegato, a oggi, per decidere se e come farmi uscire per qualche ora per il primo permesso premio.
Possibili modifiche non approvate
Per questo primo elementare beneficio, che oltretutto risulta essere parte integrante del proprio
percorso, potrebbe bastare un semi-automatismo che consentisse di accedervi a chi rientra nei termini, abbia partecipato al programma rieducativo e tenuto un comportamento rispettoso delle regole, lasciando ai Magistrati di sorveglianza il solo vincolo di opporsi, come può fare attualmente il Pubblico Ministero. Questo consentirebbe di liberare tempo per seguire operazioni molto più decisive, complesse e finalizzanti del percorso di reinserimento come la semilibertà, la messa in prova o gli eventuali interventi per chi viola le prescrizioni.
Tuttavia, anche le precedenti proposte di utilizzare degli automatismi hanno trovato l’orgogliosa
opposizione dei magistrati i quali continuano a richiedere le risorse necessarie per abbattere i ritardi, le quali, essendo state negate anche dai governi più progressisti, è piuttosto improbabile vengano concesse da un esecutivo che vede nella magistratura (in primis proprio quella che si occuperebbe di non far buttare via la chiave dei detenuti) un nemico ideologico da delegittimare e depotenziare.
Ecco che quindi anche un pensiero come quello del sottoscritto, progressista e riformista del mondo carcerario e non, sta cominciando a mettere in dubbio quell’aurea di irrinunciabilità al carcere, tanto più inspiegabile quanto più si pensi alla sua ineguagliata carriera fallimentare, sia in termini di riuscita risocializzazione del reo sia di ristoro del danno alla vittima.
Conclusioni
L’esperienza di ingiustizie e discriminazione subite e viste, il continuo snocciolamento nell’indifferenza generale del numero dei suicidi e delle morti in carcere, il noioso rincorrersi di leggi e riformicchie dai nomi altisonanti (umanizzazione delle carceri, svuotacarcere, salva-suicidi) che non cambiano minimamente il fiasco sociale dell’orrenda idea di imprigionare essere umani per renderli detenuti modello (ma non certo uomini modello) e, soprattutto, quei dati oggettivi relativi alla riduzione del fenomeno criminoso e della recidiva, che inesorabilmente certificano il fallimento del sistema carcere, e il successo dei sistemi alternativi allo stesso, mi fanno aderire e pronunciare ad alta voce le parole espresse dal compianto professor Massimo Pavarini. Colui che è stato una figura di riferimento per lo studio delle istituzioni carcerarie ed esponente di prestigio del movimento internazionale di criminologia critica espresse, nel suo celebre Manifesto redatto oltre 20 anni fa, parole che oggi più che mai risultano attualissime: “E allora, in favore del carcere non c’è difesa possibile, neppure la più radicale delle riforme impossibili. A chi sdegnato allontana lo sguardo dal supplizio, non resta che agire per abolire quel supplizio.”