Come evitare i suicidi in carcere

di Giulio Lolli / Papa Francesco: Troppi suicidi in carcere, prego per tutte le madri con figli detenuti; Corriere: Carcere la strage silenziosa; Garante Nazionale: Mai così tanti morti in carcere. Questi indignati allarmi non sono stati espressi in questi ultimi giorni durante i quali si è di nuovo superato il tragico record dei suicidi, ma esattamente 24 mesi fa. Tempi in cui era insediata in via Arenula la migliore guardasigilli che la Repubblica abbia mai avuto, Marta Cartabia, mentre Carlo Nordio dal liberale dr. Jekyl che voleva abolire l’ergastolo, non si era ancora trasfigurato nel carcerocentrico e panpenalista mr. Hyde, che moltiplica reati e carcerati. Essendo le recenti dichiarazioni del Santo Padre, dei media e dei garanti perfettamente sovrapponibili a quelle espresse 105 settimane fa, viene da chiedersi se abbia ancora un senso battersi per un argomento come le condizioni delle persone detenute, che la politica cerca di rifuggire perché elettoralmente non premiante. Ma è veramente così?

I quasi 180.000 voti che ha preso Ilaria Salis, il successo del suo partito che ha sempre messo al centro del programma i problemi carcerari, lo spontaneo e fragoroso applauso ai detenuti che, grazie all’ennesima iniziativa del cardinale Zuppi, hanno portato in spalla la Madonna di San Luca, una maggiore attenzione al tema delle carceri anche da parte dei media più ottusi a tali argomenti, sembrerebbero indicare una certa stanchezza dell’opinione pubblica verso slogan del tipo «buttiamo via la chiave» e «se sono in carcere qualcosa han fatto». Locuzioni che rappresentano emblematicamente il picco elaborativo del pensiero politico di quella classe dirigente di basso profilo, che ha sostituito una riflessione meditata sulle scelte strategiche con una navigazione a vista dei sondaggi, la quale può portare solamente a soluzioni emergenziali e semplicistiche.
Esattamente come lo è la sgangherata microriforma lanciata dal ministro Nordio, chiamata beffardamente «umanizzazione delle carceri», la quale oltre ad essere concretamente inutile, implicitamente attribuisce l’alto numero dei suicidi all’atavico sovraffollamento delle strutture carcerarie e alla insufficienza numerica degli agenti di polizia penitenziaria. Se quest’ultima è una fandonia divulgata per meri interessi di categoria e demolita dai dati che certificano 1 poliziotto per 1,8 detenuti contro 1 educatore ogni 71 detenuti, indicare il sovraffollamento come principale causa dei suicidi è una vulgata tanto illusoria quanto mediaticamente attraente, perché facilmente risolvibile con pomposi proclami come quello dell’«aumento dell’edilizia carceraria». Una soluzione che, offrendo in modo tragicomico geometri al posto di educatori e cemento e laterizi invece di lavoro e pene alternative, dimostra il totale distacco della realtà da parte di questo esecutivo.

Un detenuto che lavora, producendo così sostentamento per sé e la sua famiglia; che possa liberamente studiare o impegnarsi in un’attività che lo gratifichi; che possa telefonare giornalmente alle persone care; che possa chiamare il suo legale ogni qualvolta lo desideri e sia psicologicamente assistito e accompagnato in un percorso di recupero, lo si può far tranquillamente dormire in una cella con 10 persone con la certezza che non si suiciderà. Un gesto estremo e terribile che nessuna persona può compiere solamente perché si sente in una condizione sovraffollamento ma, al contrario, può invece attuare quando si trovi in una situazione di desolato “sottoaffollamento affettivo”, dai propri cari e dalle istituzioni.
Il sottoscritto è stato rinchiuso in un carcere salafita libico per 13 mesi consecutivi, senza mai un ora d’aria, in una cella di 35 mq con almeno 45 persone, cella con un solo bagno privo di acqua corrente la quale, per ovvie ragioni geometriche, costringeva i malcapitati ad alternare nelle ore notturne due ore in piedi e due ore sdraiati. Non mi sono suicidato solamente grazie al fatto che ho trovato un amico arabo e musulmano, Sammud, il quale da solo ha fatto tutto quello che l’intero sistema penitenziario della ottava potenza economica del pianeta non sa offrire ai propri ristretti: psicologo, educatore, mediatore culturale, criminologo e medico. Ma non solo il sistema penitenziario italiano non è in grado di fornire ai detenuti queste fondamentali figure, ma toglie loro anche la possibilità di parlare liberamente al più importante dei ruoli che ha impersonificato Sammud, quello di familiare. È ormai riconosciuto anche dal più radicale dei sindacati degli agenti penitenziari, che la famiglia e gli affetti devono occupare un ruolo importante all’interno del tragitto del sanzionato verso un nuovo rapporto di riappacificazione con la società.

Ebbene, il tempo complessivo che secondo la politica penitenziaria un detenuto poteva passare al telefono con i suoi familiari in un mese, era di 40 minuti. Con il decreto Nordio è passato a 60 minuti, sempre da dividere con i propri cari. Con buona pace dello stesso Ordinamento che invita ad utilizzare tutti i canali che possano contribuire al mantenimento e al miglioramento delle relazioni dei detenuti con le persone care.

Sono decine se non centinaia gli esseri umani, donne e uomini, giovani e vecchi, colpevoli e innocenti, stranieri o italiani che oggi sarebbero vivi, se non gli fosse stato zelantemente negato di sentire l’unica voce che avrebbe potuto scacciare i loro pensieri di morte: quella di chi ti vuole bene. O la voce di un avvocato in quanto, per non farsi mancare mai una violazione della Costituzione, le direzioni delle carceri italiane hanno autoproclamato una limitazione a due telefonate alla settimana con il proprio legale, annoverandosi pure il diritto di rifiutare una chiamata extra. Un fatto inaccettabile e in alcune situazioni di fragilità, pericolosissimo e devastante. E che dovrebbe provocare indignazione e proteste, in primis dagli stessi avvocati.

Mi permetto a questo punto di effettuare una, solamente apparente, divagazione, ricordandovi che il sottoscritto è stato chiamato come teste dalla International Crime Court riguardo le torture subite e gli omicidi e le torture visti ed effettuati dalla milizia libica Rada.
La quale nel 2017 mi ha arrestato univocamente a causa di un infamante quanto infondata imputazione formulata della Procura di Roma di “finanziamento, comando e fornitura di armi al terrorismo jiadista”.
Reati dai quali sono stato poi assolto perché il fatto non sussiste, dopo due anni di torture fisiche in Libia e tre anni di torture morali nel punitivo e incostituzionale circuito Alta Sicurezza 2 (destinato a imputati o condannati per terrorismo) delle carceri di Rossano Calabro e Ferrara.

Vi scrivo questo perché posso testimoniare che tra le varie cause di disperazione, senso di impotenza e abbandono, ci sono anche le imputazioni farlocche, i processi farsa e la gogna mediatica. E per chi viene condannato, ingiustamente o meno, vi sono anche le troppe legittime richieste di benefici che hanno ricevuto parere negativo o che rimangono per mesi e anni sui tavoli dei magistrati di sorveglianza. Una pena nella pena che viene inflitta anche a persone che hanno dimostrato, nei fatti, una presa di coscienza delle proprie responsabilità e un profondo cambiamento.
La totale discrezionalità che la legislazione regala ai magistrati di sorveglianza è stata più volte causa di suicidio e innumerevoli altre volte motivo di rabbia, autolesionismo e risentimento contro le istituzioni.

Concludo quindi con un appello affinché vengano promulgati 4 semplici e facilmente realizzabili obbiettivi:
1. Che in parallelo all’assunzione di un determinato numero di agenti, avvenga quella di educatori, criminologi e psicologi;
2. stabilire un tempo massimo ai magistrati di sorveglianza per rispondere alle legittime domande di pene alternative al carcere o di permessi premio;
3. la possibilità di poter effettuare una telefonata al giorno ai propri familiari autorizzati, un diritto peraltro già acquisito in tempo di Covid e che non ha portato nessun tipo di problema di sicurezza in nessun carcere d’Italia;
4. lo sviluppo di quell’osmosi tra carcere e città, auspicata anche dalla direttrice del carcere di Bologna dott.ssa Rosa Alba Casella, sia per aumentare le possibilità di opportunità lavorative e corsi di formazione da parte delle ditte esterne e sia per avviare quel rapporto tra detenuti, comuni e terzo settore, che permetterebbe di mettere finalmente a terra il semisconosciuto art. 20ter dell’OP.
Il quale prevede la possibilità per i detenuti di partecipare a progetti e lavori di pubblica utilità a vantaggio di amministrazioni dello Stato, regioni, comuni, enti o organizzazioni, anche internazionali, e volontariato. Un articolo dell’Ordinamento, finora rimasto solo nelle buone intenzioni del legislatore, e che invece permetterebbe a chi ha sbagliato di scoprire e sviluppare quei valori dell’ascolto, della comprensione e dell’impegno verso il prossimo, che sono fondamentali per un compiere un completo ed autentico recupero sociale.