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di Maurizio Bianchi/Mi privano della libertà personale e devo pagare la quota di mantenimento? La domanda si ripropone ogni volta che, chi ha la fortuna di lavorare in carcere, riceve la busta paga, da cui vede detratte le spese di vitto e alloggio.
Da un articolo sul Corriere della Sera, a firma Milena Gabanelli, ho appreso che gli oltre 60.000 detenuti distribuiti sul territorio nazionale in 190 istituti di pena, costano allo stato 4000 euro al mese a testa, per una spesa complessiva di 2 miliardi e 900 milioni di euro. Risulta che in Europa solo Russia e Germania spendono più di noi.
I detenuti definitivi, circa i due terzi del totale, devono pagare sia le spese di giustizia che quelle di mantenimento (3.60 euro al giorno), ma solo una percentuale irrisoria, intorno al 2%, salda il conto; gli altri, non avendo disponibilità, non saldano il debito e, una volta finita la pena, chiedono la remissione del debito perché nullatenenti.

L’ordinamento penitenziario individua nel lavoro uno dei pilastri del processo rieducativo, stabilendo che le attività svolte devono essere assicurate, incentivate e remunerate, anche attraverso percorsi formativi finalizzati al reinserimento nel contesto sociale. 
La retribuzione, o mercede in gergo carcerario, consente di fare la spesa al sopravvitto, sostenere le famiglie e pagare allo stato la tanto odiata quota di mantenimento. Le retribuzioni non sono piene come si potrebbe pensare, ma si attestano, per legge, ai 2/3 dei minimi stabiliti dai contratti collettivi di riferimento. Come abbiamo già scritto affrontando il tema del lavoro in carcere, la maggior parte degli incarichi sono a rotazione e, mediamente, un detenuto definitivo, nell’arco di un anno, lavora un giorno su tre da due a quattro ore, in pratica un mese su quattro.

Il “lavorante”, cioè il detenuto che in un determinato mese ha la fortuna di svolgere attività lavorativa, vede decurtato il suo netto di 108 euro; chi nel corso del mese è incaricato di prestazioni saltuarie, il cosiddetto jolly, corrisponde circa 80 euro di mantenimento percependo quindi somme irrisorie.
Le risorse stanziate per il lavoro dei detenuti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, circa 110 milioni di euro all’anno, sono insufficienti per fare lavorare tutti, e la coperta, quindi, è troppo corta. E’ importante ricordare che le attività lavorative interne sono comunque indispensabili per il funzionamento degli istituti, riguardando pulizie, cucina, manutenzione fabbricati, lavanderia, distribuzione vitto e sopravvitto. Le ore necessarie allo svolgimento di queste attività sono sempre le stesse, ma le ore ufficialmente retribuite calano inevitabilmente per la scarsezza di risorse.

Cosa succede negli altri paesi? In Francia lavora il 50% dei detenuti, in Germania il 65%, numeri impensabili per il nostro paese. In alcuni stati (Olanda, Irlanda, Austria, USA) la questione è stata affrontata diversamente: dal momento che tutti devono lavorare, tutti ricevono uno stipendio al netto delle spese di giustizia e di mantenimento e tutti vengono coinvolti, anche tramite accordi con aziende private, in attività, come edilizia, falegnameria, sartoria, che rendono pienamente autonomo l’istituto. L’amministrazione incassa e retribuisce il detenuto. Molti accettano il programma rieducativo e in cambio ottengono sconti di pena, più colloqui con i familiari e permessi premio, ma soprattutto, al termine dell’esperienza, hanno un mestiere in tasca. Risultato: recidiva bassissima. In Italia tutto funziona al contrario. Basterebbe copiare? Forse, come a scuola, non si può fare.