
di Maurizio Bianchi/Nella maggior parte dei Paesi nel mondo le disuguaglianze stanno crescendo, da diverso tempo. Molte persone ritengono che la cosa sia un problema di non semplice soluzione. La globalizzazione e le nuove tecnologie hanno creato un’economia in cui chi ha talento e competenze specializzate può ottenere grandi ricompense. È inevitabile che le disuguaglianze crescano, ma non è tutta colpa dei politici e dell’élite.
L’idea che l’aumento delle diseguaglianze sia inevitabile è una conclusione parziale e non del tutto corretta, che fa comodo ad alcuni e mette in secondo piano un’altra lettura della realtà, e cioè che attraverso le nostre scelte elettorali e le decisioni prese nella vita quotidiana di fatto sosteniamo l’aumento delle disparità, o comunque ne siamo silenziosamente complici. Certo, questo richiederebbe che fossimo tutti maggiormente consapevoli e informati su ciò che sta succedendo nel mondo, mentre l’ignoranza in cui spesso siamo tenuti anche dagli stessi media ostacola la responsabilizzazione dei singoli; in ogni caso la mancanza di informazioni non può essere una scusa sufficiente, soprattutto per chi non si trova nei gradini più bassi della scala sociale.
In carcere, le diseguaglianze sociali assumono un significato particolare. Nel carcere di Bologna i più fortunati, circa il 15% della popolazione presente, hanno l’opportunità di lavorare, fissi o a rotazione, e quindi possono permettersi un reddito per soddisfare i propri bisogni, aggiungendo risorse proprie a ciò che passa l’amministrazione penitenziaria per la minima sopravvivenza. Fra l’altro la situazione economica di ognuno di noi non è protetta da privacy, dal momento che ogni detenuto può guardare, attraverso il modello 100, lo stato del conto corrente di tutti i compagni di sezione.
La questione del lavoro, quindi, nella vita detentiva è centrale in relazione alla disuguaglianza; molti detenuti, soprattutto stranieri, per ottenere un’occupazione lavorativa, arrivano addirittura a compiere atti di autolesionismo pur di ottenere una mansione lavorativa retribuita. Diverse volte abbiamo visto che ad atti di autolesionismo è seguita l’ammissione al lavoro e per questo viene da pensare che i criteri di ammissione alle attività remunerate non sono poi così certi e che queste azioni vengano commesse strumentalmente per conquistare quel “di più” che consente di vivere la detenzione in modo meno pesante.
I posti di lavoro sono pochi ed alcuni sono, come detto, a rotazione: alcuni sono assunti MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati), altri alla FID (l’officina meccanica “fare impresa Dozza”), altri ancora alla lavanderia o in cucina; ci sono poi i lavori di ordinaria amministrazione, in cui vengono impegnati addetti alle pulizie dei vari reparti, alla manutenzione di aree verdi e gli “spesini”, che si occupano di raccogliere l’elenco delle spese dei detenuti e distribuire i generi alimentari e non venduti da imprese esterne per il sopravvitto. Sono proprio gli “spesini” che accedono alle informazioni sui conti correnti di ognuno di noi, e hanno quindi il termometro della ricchezza e della povertà in carcere: ciò che si ha nel conto corrente diventa quindi anche qui un’etichetta, con cui si è ascritti al catalogo dei poveracci o di quelli che, invece, possono permettersi i “lussi” da detenuto abbiente.
Non so se si può sostenere che in carcere vi siano solo poveri, ma una cosa è certa: la povertà non si misura solo con i soldi, perché proprio in un posto come questo ci si rende conto che si può essere poveri e ricchi al tempo stesso. La ricchezza che ogni detenuto conserva nell’anima è la speranza di riuscire a uscire al più presto da questo incubo, ricostruendo la propria vita in modo positivo per sé e per i propri cari.