
di Gabriele e Daniele/“Quando le cose vanno storte, la prima tentazione è quella di trovare qualcuno a cui dare la colpa”, ha detto il vescovo Matteo presiedendo la liturgia penitenziale in carcere nell’ambito della Giornata della riconciliazione e commentando l’episodio evangelico dell’adultera.
Davanti alla colpa – e chi si trova in carcere ne ha esperienza drammatica – le mani prudono per la voglia di tirare pietre. È meglio che usiamo le mani per darci da fare a porre rimedi e le pietre per costruire anziché per lapidare.
È già un primo passo se il perdono ci convince a rinunciare alle lapidazioni. È un passo da gigante se il perdono porta a costruire percorsi reali di riconciliazione, a offrire opportunità concrete perché abbia qualche possibilità quel “va’ e non peccare più”.
Il vescovo Matteo ha potuto constatare, subito dopo la celebrazione, che qualcuno aveva già raccolto il suo appello. Si è recato in visita alla FID (Fare Impresa in Dozza), un’azienda meccanica che ha creato 14 posti di lavoro all’interno del carcere e la prospettiva, per chi impara il mestiere, di un’assunzione al termine dell’esecuzione penale.
Tre aziende – GD, IMA e Marchesini – hanno costituito una società nella quale i leader mondiali nella produzione di macchinari per l’automazione hanno trasformato la concorrenza commerciale nella con-correnza per raggiungere un alto obiettivo civile: “fare impresa” con persone in partenza svantaggiate svantaggiate nella ricerca di lavoro. Sfidando le immaginabili difficoltà che una tale impresa comporta in un carcere: accesso ad attrezzi e macchine potenzialmente pericolosi, scambio di merci e semilavorati fra dentro e fuori... tutto deve superare i necessari controlli.
“È un esempio più unico che raro di lavoro “reale”, capace di stare sul mercato in forma competente”, ha commentato il direttore Claudia Clementi nel presentare l’iniziativa allo straordinario visitatore.
I lavoratori che collaborano in FID, con regolare contratto sindacale, vengono istruiti dai tutor. Sono i personaggi chiave dell’attività. Dopo aver accumulato livelli eccellenti di esperienza, spendono le loro competenze per formare gli apprendisti. Si tratta in gran parte di professionisti che dedicano a questo servizio volontario il tempo della loro pensione.
“Li sentiamo come padri che insegnano il lavoro a dei figli”, testimoniava uno dei lavoratori. “Ci insegnano che “la testa non è solo un distanziale per le orecchie” e che anche quando “si rompe un maschio” [un utensile] o un alesatore non ci si deve arrendere: sono incidenti che ci permettono di trasformare l’errore in un’occasione di apprendimento”. Sbagliando si impara: una lezione che riguarda la finalità stessa di un carcere. “Non si può chiudere nei cassetti un attrezzo, facendo finta di non sapere nulla, o senza spiegare come sia stato fatto il danno”. Come non ha senso chiudere in carcere chi ha sbagliato facendo finta che non serva molto di più.
“Ringraziamo le aziende, i loro tecnici con i quali collaboriamo e soprattutto non ringrazieremo mai abbastanza i tutor, i nostri cari maestri che ci insegnano ad essere non semplici “stringibulloni” ma veri montatori e non solo. Ci insegnano anche come affrontare la vita, evitare i problemi e vivere lavorando. Questo discorso me lo possono fare solo i miei genitori e loro per me sono come un genitore”.
Meno male è lunedì, titolava il film di Filippo Vendemmiati (2014), raccogliendo l’esclamazione di qualcuno degli “interpreti” della FID. Meno male che si lavora anziché tirar pietre.