
di Osvaldo Broccoli / Da anni, ma soprattutto in questi ultimi tempi, assistiamo al fenomeno dell’immigrazione. Migliaia e migliaia di persone, soprattutto giovani, che hanno lasciato la loro terra, dove il più delle volte rimangono i loro familiari, sbarcano sulle nostre coste. A spingerli in questa scelta, certamente dolorosa per loro, è la speranza di trovare qui la possibilità di un lavoro che permetta di guadagnare per vivere e per assicurare a sé stessi e ai loro figli un futuro migliore e sereno; e questo è vero soprattutto per quelli che fuggono da paesi in guerra.
Certamente questo vero e proprio esodo può dar luogo a tensioni e difficoltà, specie in questi tempi, tempi di crisi per tutti. I rischi, però, non devono far dimenticare la realtà positiva delle tante persone immigrate che lavorano onestamente contribuendo al benessere del nostro paese, e soprattutto non devono farci dimenticare che in tempi passati anche tanti italiani sono partiti per cercare lontano una vita migliore.
Purtroppo si assiste a devianze motivate dalla mancanza di lavoro o dal desiderio di denaro facile, che portano tanti in carcere.
Basta pensare che la metà dei detenuti a Bologna sono immigrati, di cui circa 200 di religione musulmana (i dati sono riportati nell’articolo di Piazza Grande). La maggior parte di questi sono praticanti: li vediamo tante volte in preghiera sul loro tappetino, rivolti verso La Mecca, e a volte sentiamo qualcuno che canta il richiamo alla preghiera.
Per i musulmani è possibile, qui in carcere, seguire un regime alimentare consono alla loro cultura ed alla loro religione: è infatti previsto il “vitto musulmano”.
Ma tutto questo è sufficiente per creare condizioni di convivenza positiva?
A Modena si sta sperimentando la presenza di un imam all’interno del carcere, e di questo parla l’articolo di Piazza Grande che pone la domanda: si tratta di un pericolo o di un’opportunità?
Davanti al pericolo del terrorismo e quindi al possibile proselitismo ed all’affiliazione anche in carcere, viene da chiedersi “ne vale la pena?”. Io penso di sì.
E’ importante che in ogni parte del mondo ad ogni persona venga garantita la libertà di adorare Dio e di pregarlo secondo la propria fede e le proprie tradizioni, nel pieno rispetto di un ordine civile, che si fonda proprio principalmente sul rispetto.
Il futuro può costruirsi solo sulla relazionalità: il rapporto tra le persone non deve fondarsi sul sospetto, sull’arroganza, né su pretese di superiorità.
Se ci accomuna un vivo senso della fede e dell’amore dovuto a Dio, certamente possiamo incontrarci, parlare, collaborare. La fede in Dio deve portarci a sentimenti e a comportamenti basati sul rispetto e sulla stima reciproca. Su vari punti potrà capitare di non trovare un comune consenso, ma certamente il rispetto, la stima e la carità possono farci camminare sempre più concordi. Perciò un imam all’interno del carcere, purché si esprima in italiano affinché anche italiani possano avere l’opportunità di partecipare, come ho visto in passato alcuni detenuti di fede musulmana partecipare alla spiegazione del Vangelo da parte di alcuni volontari, potrebbe essere quel “mediatore” che aiuta tutti a crescere.
D’altra parte anche la Costituzione italiana all’art.3 e soprattutto all’art. 8 recita che “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”. Anche all’art. 19 si ribadisce che “tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa". Questo pilastro della nostra convivenza civile apre dunque questa possibilità che anche in carcere la comunità musulmana possa avere il suo ministro di culto come avviene già per altre confessioni.
Ovviamente non possiamo non sperare che anche nei paesi di tradizione musulmana si sviluppi ugualmente una capacità di accoglienza e di apertura verso minoranze cristiane o di altre confessioni.