
Inauguriamo con questo brano la collaborazione con il gruppo di lettura che si riunisce mensilmente alla Dozza grazie a Enrico, volontario e operatore di Sala Borsa.
Questo racconto è nato dalla lettura di "Tre morti" di Tolstoj.
Di Ouertani Fethi In casa mia l’autorità dei genitori era sacra,
ma con noi la si esprimeva amorevolmente.
La nostra famiglia era quanto di più bello potessimo sognare: ci si
amava, ci si aiutava l’un l’altro con generosità, il dolore di uno era di tutti
e la Gioia era grande perché eravamo in nove incluso i genitori.
Il ritrovarci tutti la sera era bello come il ritrovarci dopo una lunga
assenza. Si parlava, si cantava, si discuteva, si rideva.
Mio padre, piccolo di statura, ma grande di animo e di cuore, era un uomo
di arguzia raffinata, quasi incredibile per la sua cultura elementare e di un
ottimismo a prova di bomba. Ricordo le sue mani callose, quasi deformate, dal
lavoro di minatore. Allora era un mestiere d’oro, oggi scomparso. Attraversava quelle
strade bianche tra le colline per recarsi a Damus. Forse l’unico della borgata Eddaouar
ad andare a lavorare alle miniere, senza prendere consapevolezza del rischio
che poi l’ha sepolto sotto una valanga di terra ad una profondità di centinaia
di metri. Così abbiamo perso la colonna robusta della famiglia.
Mia madre era una saggia amministratrice di quel nulla che c’era ed il
suo buonsenso era il punto di riferimento anche per le altre famiglie amiche. Era
una donna eccezionale, intelligente, lungimirante, e con un cuore immenso. Con lei,
noi ci sentivamo sempre sicuri. Il suo sorriso ci ha accompagnati per tutta la
sua vita fino al 28/3/2008. I miei genitori si volevano un gran bene e il loro
amore non si era tramutato in nulla.
Del lungo inverno ricordo ancora il caldo della stalla, quando la sera
le donne filavano la stoppa e gli uomini fumavano una cicca.
Le dure mani delle donne ossute sembravano andare quasi per inerzia, era
la volontà e il gusto del lavoro che le incollava alla rocca e al filanino. Era
la dignità dell’onestà.
Gli uomini assisi sulla paglia secca, posavano la fatica, gustandosi un
fumo impregnato di stalla. I poveri scaldavano le ossa al fiato delle mucche
che, ruminando mute, sembravano grate per la compagnia. L’umidità sudava appesa
alle pareti, la povertà era impressa sui volti come una marca da bollo.
Dagli occhi traspariva la serena pace di chi ha il cuore in pace. Il tempo
passava lento e noi bambini ingannavamo la fame, facendo lavorare la fantasia. Il
lume, piccolino sembrava vergognarsi.
Poi la nonna, tenendo una corona, bisbigliava Eshahda in arabo con
rispetto religioso e tosto, un coro, con bisbiglio sommesso riempiva quel
silenzio. Ecco che allora il caldo entrava anche nel cuore.
L’anziano, che di giorno accudiva gli animali da cortile e vegliava sui
bambini piccoli, poteva continuare la sua esperienza, facendo dono della sua
esperienza, del suo buon senso, mitigando o spronando, a seconda del momento e
della necessità.
La miseria ci insegna il massimo rispetto della natura, perché la
natura è per l’uomo e dalla natura dipende la vita e la qualità della vita.
Dio creando l’uomo gli ha regalato tutto un mondo meraviglioso.
Ecco perché la vita di allora non aveva il ritmo frenetico di oggi e
tutto sembrava muoversi con la tranquillità e la sicurezza della natura.
Certo la vita è una trama che tessiamo.
Bisogna imparare ad amare per vivere meglio e a soffrire per amare di
più.
Ma se questa è la nostra ora il tempo della semente non ritorna più.