
di Sergio Ucciero/Il laboratorio di giornalismo «Ne vale la pena», a partire dalla discussione dei Tavoli degli Stati Generali avviatasi intorno alla seconda metà del 2016 e promossi dal ministro Orlando, ha iniziato con l’esaminare alcuni fra i punti ritenuti più interessanti sulla proposta di riforma della modalità di espiazione della pena. Uno dei temi esaminati all’interno del laboratorio, più discussi e allo stesso tempo controversi, è quello in merito alla giustizia riparativa. Per tale proposta sono veramente pochi coloro che hanno chiari i reali obiettivi che si pongono, essendo l’argomento rinchiuso prevalentemente nelle aule degli addetti ai lavori e, quasi sempre, porta chi poi se ne avvicina, e in particolare il mondo dei detenuti, a presupporre che un eventuale beneficio sia riconducibile esclusivamente al detenuto stesso, anche per l’ambiguità del termine che può ingenerare errate interpretazioni.
Proprio per questo, volendo comprendere meglio cosa s'intende quando si parla di giustizia riparativa, ed essendo l’argomento molto interessante per le aperture e gli spunti che offrono a nuove riflessioni sul sistema della giustizia, il laboratorio si è posto l’obiettivo di approfondire il tema mediante l’intervento di chi, da anni, si occupa di questo modello e ne svolge concretamente le funzioni in diversi ambiti. Abbiamo così invitato Susanna Vezzadini, docente incaricata dell’Università di Bologna in Scienze politiche, che si occupa di Scienze criminologiche e Teoria dei processi di vittimizzazione. È stata inoltre giudice onorario in ambito minorile con la funzione di seguire la messa alla prova.
Susanna Vezzadini, in premessa, riconosce che, purtroppo, la riforma ha subito una battuta d’arresto, in particolare a causa di quale attore istituzionale debba assumere la titolarità della sua applicazione. L’Italia è in forte ritardo rispetto ad altri paesi in cui questa è stata attuata, come ad esempio gli Stati Uniti, la Germania e l’Inghilterra, dove esiste già dagli anni ’80. Introducendo poi l’argomento, apre con alcune parole da "!Il libro dell’Incontro!, di Bertagna, Ceretti e Mazzuccato, dove vittime e responsabili della lotta armata che ha insanguinato l’Italia degli anni ’70, si sono messe a confronto. Una delle vittime scrive una lettera aperta, come figlia di una vittima del terrorismo, a chi ha partecipato all’assassinio del proprio padre, lasciando una frase fra parentesi. La donna in questione è Agnese Moro, figlia di Aldo Moro.
La realtà attuale, data dall’iter giudiziario, è che quando avvengono torti o fatti criminosi, i protagonisti si chiudono nella loro parte, seguendo percorsi diversi e inconciliabili, senza più alcuna possibilità d'incontro e confronto, lasciando l’avvenuto in una condizione sospesa, non risolta, come messa tra parentesi; questo è un motivo di rancore insanabile. La vittima conosce lo stigma del sopruso e dell’ingiustizia, sente di non essere più una persona degna, mentre lo scopo della mediazione, se messa in atto, è di lavorare non su ciò che attiene alle responsabilità penali, ma sulle emozioni, sui sentimenti quali l’odio, la rabbia e il rancore. La giustizia riparativa richiede proprio di non lasciare nulla in balia del non detto. Non è un percorso individuale e terapeutico, non contempla il danno, non è alternativa alla giustizia penale, ma complementare.
La vittima ha due alternative: ritirarsi dal palcoscenico con conseguente chiusura verso il mondo e verso se stessi, o tornare ad essere protagonista ricostruendo delle proprie certezze. Vittima e reo rimangono legate per sempre e, per motivi diversi, coltivano rabbia e dolore. Vittima è anche chi ha commesso il reato, perché porta sulle spalle e nella coscienza il peso della frattura avvenuta. Con la giustizia riparativa sono espressi quei sentimenti che spesso si crede che tenerli nascosti (appunto tra parentesi) possa aiutare; ma non è così. Dobbiamo aprire le parentesi. La sua attenzione non s’incentra solo sul reo, sul passato o sul concetto di colpa; quello che è stato non può essere riparato. È il cercare di immaginarsi un altro futuro: sofferenza e dolore non si possono cancellare. È indispensabile guardare avanti coinvolgendo tutte le parti: la vittima, il reo e la società. La giustizia riparativa si porrebbe chiamare in un altro modo.
Nei paesi anglosassoni non è "riparare" (to heal), ma "to restore" col significato di restaurare o ristorare, in quanto ristorare ha un significato relazionale. Va vista da un punto di vista valoriale: riparazione in termini simbolici e relazionali, attivazione di momenti di mutualità. Ci chiama a pensare all’altro come persona e vedere il reo in quanto “persona” non per ciò che ha commesso (restituire all’altro il valore di persona).
In chiusura, la Vezzadini ha portato un esempio, quello di Dennis Chapman, un sociologo-criminologo che si è occupato di processi di riconciliazione nell’Irlanda del Nord. Un anno si trovava in Sicilia a Catania con la sua compagna e fu derubato. A seguito di questo subirono entrambi un grave disagio psicologico e una paura che si ripresentava ogni volta che la mente li riportava all’episodio, tanto da non voler più ritornare in Sicilia. Si scoprì vulnerabile e fragile con perdita di fiducia ed un senso di sicurezza che vacillava. Poi avvenne che nell’istituto penitenziario di Tempio Pausania si avviò un progetto di giustizia riparativa e Chapman venne invitato. In quell’occasione raccontò la sua disavventura e dagli intervenuti al progetto, scoprì che c’erano alcuni ragazzi catanesi. Percepiti precedentemente, a seguito di questo, con ostilità e fastidio, dopo questo confronto vide il fatto e loro sotto un’altra luce. Questo esempio fa comprendere come, già nell’incontro, nel poter conoscere il “volto” dell’altro, sia possibile lavorare sui quei sentimenti, su quelle emozioni che permettano di ricostruire se stessi e le relazioni, che permettono di ricomporre quella frattura e rielaborare i sentimenti di disagio, paura, vulnerabilità e insicurezza.