
di Flavio Dell'Erba/Ritrovarsi rinchiuso dentro una cella di un carcere è sicuramente un'esperienza che nessuno, e a nessuno, si augurerebbe. Tutto all'improvviso prende una diversa dimensione. I pensieri girano vorticosamente, le immagini scorrono nella propria mente riproponendo gli ultimi istanti prima dell'arresto, prima che tutto finisse lì, dentro quella stanza buia e maleodorante, prima tappa del nostro ingresso. Mentre riflettiamo, ci ricordiamo di quante cose avremmo dovuto e voluto comunicare a quella o a quell'altra persona. Gli affetti, le amicizie; iniziamo a sentire ciò che proprio in quel preciso istante più manca: poter comunicare. Sì, perché in una condizione di libertà, per qualsiasi cosa si abbia bisogno di dire, alziamo il telefono e, al limite, se nessuno risponde, inviamo un messaggio. Adesso può succedere che ci si svegli di notte di soprassalto e, guardandoci attorno, ci si senta smarriti; ancora non ci rendiamo conto di essere rinchiusi in carcere.
Nel momento in cui ho preso consapevolezza del luogo in cui mi ritrovavo, la prima cosa che ho realizzato è stata la mancanza di tutti quegli oggetti che in una condizione di libertà erano lì, a portata di mano, e ora non ci sono più. A molti davo poco valore, bastava allungare una mano e li prendevo e, forse, senza rendermene conto, davo poco valore anche alle persone a me vicine. Ma ora mi accorgo di sentire un'intensa mancanza anche dell'oggetto più insignificante. Premere l'interruttore della luce, alzarmi ed aprire il frigo per bere, sfogliare quella rivista sul comodino sempre lì a portata di mano, più come simbolo d'appartenenza o di un mio interesse, ma mai veramente letta.
La reazione al nostro ingresso potrebbe prendere anche dimensioni diverse, a seconda di ciò che stavamo attraversando. Ma, paradossalmente, entrando in carcere potremmo sentirci improvvisamente "liberati". Personalmente stavo vivendo un momento difficile, dove non riuscivo più a far fronte a impegni o aspettative che avevano esercitato una pressione insopportabile, fino a creare una sorta di cortocircuito. Pur non rendendomene conto, non avevo più quella lucidità indispensabile per affrontare problemi e trovare soluzioni. Mi sembrava non ci fosse nemmeno qualcuno con cui parlare, per pudore, per orgoglio. Ora tutto è finito. Nessuno può più sommergermi di richieste o telefonarmi, fino a provare quell'angoscia del cellulare che continuamente squilla.
In quel momento ho pensato che la mia vita fosse "conclusa", che non valesse più la pena ricominciare a coltivare aspettative e, rispetto a queste, persino di non averne più il diritto. Ho pensato a quanto tempo speso per portare avanti progetti in cui credevo e che, per un po' di tempo, mi ero illuso potessero funzionare. Però poi, riflettendo, ho capito di aver trascurato molte cose importanti. Proteso con lo sguardo fisso verso qualcosa davanti a me, non mi sono accorto di ciò che avevo di fianco. Adesso provo cosa significa essere inascoltati, di come questo luogo possa acuire le sofferenze. Forse era proprio necessaria una battuta d'arresto di questo genere per farmi comprendere quante mani si sono allungate verso di me, quanti i richiami di chi, volendomi bene, cercava di aiutarmi affinché spostassi quello sguardo. Ma li ho tutti rifiutati e allontanati o non compresi. Adesso la necessità diviene quella di reagire, andando a cercare dentro di me forza e motivazione necessaria. Ma non è stato facile. Ogni volta che guardavo negli occhi le persone a me vicine vi leggevo tutto il dolore, la delusione, la rabbia che le mie azioni avevano comportato.
Reagire non è semplice. A seconda di come elaboriamo quanto è accaduto, potrebbero scaturire processi di auto esclusione dall'intraprendere un qualsiasi percorso per potersi emendare; si potrebbe provare un senso di inadeguatezza tale da rifiutare perfino di "vivere", arrivando al punto di lasciarsi andare all'inerzia.
I rapporti all'interno del carcere non facilitano reazioni positive. Quante volte ci troviamo a dover discutere col compagno con cui viene condiviso quel luogo triste e angusto; sul volume del televisore, sul programma che a noi proprio no, non piace. Tutto appare insopportabile.
Spesso l'uomo comincia a dare il meglio di sé nella sofferenza. In quel momento si risvegliano i sensi, quei sensi che si erano atrofizzati, dove solo uno funzionava; la soddisfazione del proprio io. Ci sono momenti in cui siamo investiti da un senso di onnipotenza e pensiamo che nessuno possa fermare la nostra corsa verso quell'obiettivo.
Anche qui dentro possiamo correre il medesimo rischio rimanendo con lo sguardo fisso verso l'unico scopo; uscire il prima possibile. Potremmo non accorgerci, ancora una volta, di quello che sta attorno a noi, dando una valenza negativa a un sistema che riteniamo non possa offrire prospettive. Se in parte è vero, siamo comunque noi in larga misura a essere fautori del nostro domani. Non dobbiamo essere portati verso la convinzione che in un luogo come questo non possa esserci l'opportunità di una crescita personale. Studi recenti mettono in risalto come l'essere umano sia dotato di udito selettivo, ovvero, come l'attenzione venga convogliata in alcune direzioni, escludendone ed elaborandone inconsapevolmente altre.
Prima di entrare qui dentro, assorbito da me stesso, non mi soffermavo a riflettere se non su come migliorare tecniche o strategie lavorative assieme alla mia condizione sociale. Da quando sono qui anche a motivo del tempo a disposizione, ho iniziato a farlo, a fare percorsi introspettivi, a cercare di capire. Ho permesso al mio cuore di risvegliare quei sensi che erano rimasti atrofizzati. Ho cominciato ad affrontare temi, a leggere testi. Col contributo di alcune persone ho potuto cambiare quella prospettiva, il punto di vista dal quale guardavo e ho avviato un percorso di crescita. Questo, forse, dimostra che la vita merita sempre di essere vissuta, perché ogni esperienza per quanto dolorosa apre prospettive che, se si sanno cogliere, portano ad una maggiore consapevolezza. Oggi l'obiettivo sta nel cammino verso il suo raggiungimento, e non, nel solo raggiungimento. Un passo biblico dice: "Chi guarda il vento non seminerà; e chi guarda le nubi non mieterà." Per quanto le privazioni comportino sofferenza, bisognerebbe evitare di concentrarsi su ciò che non si può fare, provando a guardare a quelle cose che luogo e condizione in cui si trova ci consentono, in modo che, quando ci guarderemo indietro, potremmo accorgerci di aver intrapreso strade che non avremmo mai immaginato di percorrere.