
di Massimo Pappalardo/Sono nato e cresciuto in una famiglia semplice, una famiglia con dei sani principi: senso del dovere, onestà, rispetto di sé e degli altri. Non posso dire di non aver avuto una guida, un buon esempio da seguire: papà, grande lavoratore, si spaccava la schiena per mandare avanti la famiglia, mentre mamma era dedita alla cura dei figli e della casa. Sono sempre stato orgoglioso della mia famiglia; infatti costruire una famiglia come quella in cui sono cresciuto è sempre stato il mio sogno fin da ragazzo.
Mi ricordo come se fosse ieri il giorno in cui ho conosciuto Angelita, mia moglie, la donna della mia vita. Avevamo entrambi 19 anni. Fu davvero amore a prima vista, ci sposammo l’anno seguente. Erano tempi belli, quelli, pieni di vita e con tanti progetti da realizzare. Sono diventato papà per la prima volta a ventun anni: la nascita di mio figlio Salvatore è stata una gioia indescrivibile, un evento che cambia radicalmente l’esistenza di un uomo, che lo rende responsabile. Insieme eravamo una famiglia felice. Anche il lavoro procedeva regolarmente. Lavoravo nell’azienda edile dei miei cognati, che negli anni 2000 attraversò un periodo roseo con cantieri in diverse città dell’Emilia Romagna.
È assurdo come la vita all’improvviso ti giri le spalle e ti lasci sul baratro più totale. È quello che è successo a me: mi sono trovato senza lavoro inaspettatamente, per i problemi amministrativi in cui è stata coinvolta l’impresa, e per giunta mia moglie aspettava il secondo bambino. Nel 2012 nasce il mio secondo figlio, Nicolò. Ero felice, ma allo stesso vivevo una situazione di panico per il lavoro perso. Fino a quel momento avevo garantito alla mia famiglia un tenore molto agiato. Cercavo lavoro, ma senza fortuna, ed ecco che da capo cantiere che ero sono diventato rapinatore di banche. La mia famiglia è sempre stata all’oscuro della mie attività criminose: la mattina ero rapinatore, mentre per il resto della giornata ero un ottimo padre di famiglia. Oggi mi vergogno delle tante bugie dette a mia moglie negli anni che hanno preceduto il mio arresto. Ebbene sì, scrivo queste righe all’interno della mia piccola cella, davanti a me ci sono le foto scattate durante gli anni della mia libertà, nei momenti felici con Angelita, Salvatore, ormai ventunenne, e il piccolo Angelo Nicolò, che di anni ne ha 5.
Il mio arresto è stato uno shock per tutti, un fulmine a ciel sereno per mia moglie, i miei figli e i miei genitori. Era il 26 ottobre 2016. Quella sera ero a casa e giocavo con il piccolo Nicolò, quando all’improvviso i poliziotti, che da tempo indagavano su di me, si presentarono con un mandato d’arresto. Ricordo ancora lo sguardo di mia moglie e di Salvatore. Per loro è stato un dolore che si porteranno dietro per tutta la vita. Oggi incontro i miei familiari durante i colloqui all’interno del carcere. L’unica persona all’oscuro di tutti è il piccolo Nicolò, un bambino a cui è stato arrestato il papà alla tenera età di 3 anni. Tanti mi chiedono se sarebbe giusto raccontargli la verità. Credo che un bambino a quell’età debba vivere in un contesto familiare che lo protegga da questo drammi, che fanno parte della vita, ma che non possono essere affrontati a 5 anni. Sin dal primo giorno, ho chiesto a mia moglie e a mio figlio Salvatore di raccontare a Nicolò la storiella del papà che è fuori per lavoro. La mia famiglia ha accolto questa mia richiesta: per un bambino sapere che il papà è chiuso in una cella potrebbe incidere negativamente sulla sua infanzia e, molto probabilmente, sul suo futuro. Una situazione difficile, delicata, ma che sicuramente un giorno, quando saranno maturati i tempi, racconterò al mio Nicolò, e spero che saprà perdonarmi. Oggi vivo aspettando il giorno del colloquio, e le due ore in cui posso stringere fra le braccia il mio piccolo. Mi fa tenerezza quando mi chiede: papà, non ti farà male lavorare così tanto?